L’ANTIRAZZISMO A CANESTRO

di LUCA SERAFINI – Il mestiere del poliziotto è duro, complicato, umiliante. Guadagni pochi spiccioli e quello è il misero valore che danno alla tua vita, mentre te la giochi tra vicoli e pozzanghere. Rischi tutto per incastrare un balordo, poi un giudice lo rimette in strada per un cavillo. Il “profilo” dell’agente è quello di un uomo o una donna che indossano la divisa per necessità, per campare: le vocazioni che spingono al distintivo per amore verso la Patria e la giustizia sono ormai inferiori forse anche a quelle per il sacerdozio, ridotte ai minimi termini. La famiglia è un optional, si sfascia in una notte come l’esistenza. Gli eroismi vengono dimenticati in fretta, le gratifiche effimere e le medaglie ancor meno. Questo quadro genera e sottintende rabbia, qualche volta cieca. Bastano uno sputo, una provocazione, un gesto – anche banale – per scatenare una collera criminale che in un attimo ti trasforma in una persona peggiore di chi hai di fronte. Infrangi per primo le regole che dovresti rispettare e difendere. Ma l’esasperazione non è giustificabile. Mai. Specie se sei un poliziotto e se la mischi a un sentimento come il razzismo.

Negli Stati Uniti, il ferimento vigliacco di Jacob Blake in Wisconsin, dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio scorso, dopo le manifestazioni di piazza, hanno sollevato la reazione dello sport: dopo il rifiuto dei Milwaukee Buck di scendere in campo in gara 5 contro gli Orlando Magic (playoff NBA), i quali hanno immediatamente aderito a loro volta, il basket è stato prontamente imitato da baseball, calcio, golf, tennis. Un modo di dire “Basta!” in un Paese dove pure negli ultimi anni il progetto “Mapping Police Violence” ha raggiunto risultati significativi, cercando di infondere nelle forze dell’ordine un rigore etico più rigido, che purtroppo però non è stato altrettanto efficace nei confronti dei delitti di natura etnica.

Un recente articolo (1 giugno) di “FiveThirtyEight”, firmato Samuel Sinyangwe, afferma che negli ultimi 7 anni i delitti della Polizia sono diminuiti in maniera significativa (30%) nelle grandi città e nelle grandi aree metropolitane, ma sono cresciuti in egual misura nelle aree suburbane e rurali. Il miglioramento, osserva “IlSole24Ore”, sarebbe dovuto “a una serie di riforme relative all’uso della violenza da parte della Polizia”, implementate a seguito di alcuni casi che hanno raggiunto rilevanza internazionale: “Soluzioni per ridurre il fenomeno esistono”, scrive Sinyangwe, “il problema è semmai relativo a chi ha la volontà di metterle in pratica”.

Per una singolare coincidenza, anche il numero di reati e di arresti è diminuito nelle grandi città, aumentando in periferia, cosicché i numeri restano fondamentalmente gli stessi. I dipartimenti di giustizia di San Francisco, Baltimora, Philadelphia, Chicago hanno emanato una serie di rigide raccomandazioni che in quelle città hanno sortito effetto positivo e hanno avuto il seguito di Dallas, Phoenix e Denver. Le forze di Polizia sono state istruite anche a indagini meno invasive rispetto alla privacy dei sospettati. Quando si tratta, naturalmente, di reati minori: furti, spaccio di droga leggera, microcriminalità.
Ma non è sufficiente. Stiamo parlando di un Paese in cui il razzismo prolifera da due secoli e dove la privacy è stata violata nel momento stesso in cui fu coniata questa parola. Questa violazione non riguarda solo Amazon o Facebook: è un fenomeno, ben più remoto, che interessa proprio le istituzioni governative, parliamo di CIA e di FBI.

Ho visto di recente la biografia dell’attrice Jean Seberg nel film del 2019 “Seberg – Nel mirino”, un esemplare trattato di tutte queste problematiche, incluso il razzismo: la nascente star di Hollywood iniziò a elargire sovvenzioni al movimento di protesta “Pantere nere”, guidato da Hakim Jamal, con il quale la Seberg ebbe una relazione. Del resto, cinematografia e letteratura ci raccontano puntualmente l’evoluzione di conflitti etnici che non si placano, nonostante storie, biografie, racconti, insegnamenti propinati in ogni angolo della cultura.
Servono gesti e azioni forti da parte di chi governa, per cercare di sradicare gli ancora troppi focolai razzisti: i prossimi negli Stati Uniti dovranno interessare la campagna, dove l’orientamento politico è repubblicano e con Trump al potere non possiamo essere molti ottimisti.

E allora, un grazie allo sport! Gesti e azioni forti di un mondo così popolare possono aiutare finalmente a cambiare qualcosa: va sconfitto un germe che non sta soltanto nel corpo di qualche poliziotto invasato, ma che va sterminato dalla testa di chi la moderazione non conosce. Senza fare nomi, la disinfestazione potrebbe iniziare alla Casa Bianca con le prossime elezioni, ma è anche nella quotidianità della gente, delle nuove generazioni, che razzismo e violenza dovranno essere espulse. Costerà altro sangue, perché i fiumi versati fino ad oggi non sembrano essere serviti.

Un pensiero su “L’ANTIRAZZISMO A CANESTRO

  1. Dongiovanni Cristina dice:

    Grande come sempre Serafini, aggiungo solo che in mezzo a tutte le ragioni della professione e a tutte le giustificazioni che non reggono c’è una radice amara troppo invasiva e troppo secolare che continua a germogliare nelle crepe degli asfalti dell’immensa e caput mundi America: l’affermazione del potere individuale, la volontà di supremazia che succhia si linfa anche dal razzismo (nel senso etimologico e più antico) ma che riguarda in realtà la fragilità umana e civile di uomini-impalcatura che si reggono a malapena in piedi solo per cercare di avere un posto nel mondo mitico di quel melting pot culturale che li sovrasta facendoli sentire dei vermetti striscianti in un carnevale senza fine.
    Manca forse l’identificazione con una figura univoca (evito di toccare l’argomento del biondone, anche se parecchio significativo), troppo incombenti le etnie, le lingue, gli usi. Dovrebbero essere ricchezza invece succede solo nei film.
    La professione di forza dell’ordine spesso non è una scelta che riguarda solo la mancanza di altre possibilità, è un lavoro che crea l’occasione di generare muri, creare un ordine mentale malato nell’ambito di gruppi e/o generazioni arrabbiate che virano verso la possibilità di affermarsi con poca spesa, a volte annientando il prossimo che non porta divise tranne quella del colore della pelle.
    Il controllo delle leve, le verifiche periodiche dell’integrità psicofisica e, mi spingo over the rainbow, una scuola della professione che prendesse in considerazione alcune materie “umanistiche” nel senso letterale del termine, una sensibilizzazione vera sul ruolo civile e quasi sacro che questa gente ricopre forse servirebbero a qualcosa. Insieme, ovviamente e tutt’altro che accessoriamente, ad un pesante e preciso intervento giuridico sulle pene previste per i reati commessi .
    Ergo, bloccare la produzione di humus ideologico, perché sono stati 8 i minuti serviti a George Floyd per morire e 7 i colpi sparati a Jacob Blake per rimanere paralizzato. Serve proprio tutta la razionalità che abbiamo in corpo per accettare che nessuno dei colleghi presenti abbia fermato il carnefice, serve uno sguardo forse diverso per cercare di capire senza mettersi i coltelli tra i denti.

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