L’AMORE PIU’ GRANDE

La vita e la morte fanno curve bizzarre: peripli inaspettati. Forse, tutto questo serve, nel disegno di un Ente superiore, a ricordarci che siamo fragili, impotenti di fronte alle beffe del caso, sperduti in un oceano di gorghi paurosi e di atolli splendidi di sole. Certamente, di fronte alla sorte di Miriam Visintin, morta a 57 anni, dopo averne passati 31 in coma, è quasi impossibile non pensare che, certe volte, su certe persone, il destino si accanisca con malvagia soddisfazione.

Miriam, ventiseienne vicentina, era andata a sbattere con la sua Panda contro un cancello, la vigilia di Natale del 1991 e, da allora, era caduta in coma, senza mai riprendere conoscenza. Ventisei anni, viglia di Natale: già questo sembrerebbe un ignobile scherzo del fato: aggiungete che si era appena sposata e la scena apparirà in tutta la sua paradossale crudeltà.

Eppure, io dico che, per certi versi, il destino di Miriam mi appare invidiabile: che l’apparente catastrofe cela, in sé, qualcosa che mi sento di ritenere desiderabile, se penso a quella fine che, data l’età, mi si prospetta come qualcosa più di una semplice ipotesi filosofica. Quante volte sarà capitato anche a voi di chiacchierare sulle possibili morti e scegliere, inequivocabilmente, il coccolone improvviso, mentre leggete in poltrona: ecco, per cominciare, la morte di Miriam Visintin ha tutte le caratteristiche di un coccolone protratto. Di una morte avvenuta sei lustri fa, ma portata a compimento solo oggi.

Tuttavia, non è questo che invidio a questa donna sfortunatissima, quanto l’amore. L’amore che cerchi per tutta la vita e che, magari, non trovi mai: l’amore perseverante, indistruttibile, ciecamente fedele, che, certe volte, ti pare possa esistere soltanto nei libri. Miriam, consapevole o inconsapevole, questo amore lo ha conosciuto e posseduto: è l’amore di suo marito, che, perdendo una moglie all’indomani del matrimonio, le è rimasto caparbiamente accanto, assistendola, curandola, coccolandola, per tutti questi anni. Oh, sì: veramente io invidio a Miriam questo amore: un privilegio enorme, in un mondo in cui, spesso, ci si prende e ci si lascia per un capriccio, per denaro, per litigi banali, per mancanza di cuore.

Sapete quanti sono 31 anni? Trentuno inverni, in cui guardi dalla finestra la prima neve, e lei dorme e non la può vedere. Trentuno estati, in cui le famiglie degli altri si preparano alle vacanze, con piccoli battibecchi, intorno ai bagagli da riempire, con curiosità ed entusiasmo: e lei non avrà più lavoro né vacanze, stesa in un letto, lo sguardo al soffitto. Questo sono 31 anni: una vita. Una vita che il marito di Miriam avrebbe ben potuto rifarsi, se lei fosse davvero morta in quel maledetto 24 dicembre del 1991. Invece, lui l’ha vista viva: il suo amore ha prevalso sulle sue retine e sui suoi neuroni. Così, lui, il marito, è stato il malato, il prigioniero: ma aveva questo cuore enorme, che gli pulsava nel petto, che non si arrendeva alla beffa diabolica. E le è stato vicino fino all’ultimo: fino a quando la morte vera non è venuta a prendersela.

Lo confesso, non riesco a compiangere Miriam, se non per quello scherzo crudele di tanti anni fa: la morte è un attimo e la paga soprattutto chi rimane. E se il compianto si unisce a tanti ricordi felici, il dolore ti schiaccia, l’assenza è come una mano fredda che ti stringe la gola, ogni sera: la memoria, a volte, è un peso insopportabile. Invece, pensando a questo suo spaventoso dormire per trentuno anni, non posso che invidiarla, per quella sua fortuna impareggiabile di essere così amata. E se le parole di suo marito, ripetute ogni sera, le sono arrivate in qualche zona remota della coscienza, soltanto quelle basterebbero a fare del suo sonno una vita piena. Più fortunata di tante altre, apparentemente vigili, ma desolatamente sole.

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