Esperimento obbligato ma interessante, solo dal punto di vista tecnico però. Da qualche anno stiamo imparando a riprendere e montare da soli le immagini, come facevano a Dallas già nel 1963: l’omicidio di John Kennedy consentì di scoprire anche in Europa che negli Stati Uniti erano già nate le tv locali e che i giornalisti tenevano su una spalla la telecamera e in mano il microfono. Non è una limitazione per operatori e montatori: se noi possiamo ottenere la loro qualifica, loro (come sostengo da anni) dovrebbero avere quella di giornalisti.
Il problema è l’etica. Da ragazzini, quando si sogna di diventare giornalisti, si pensa di andate in redazione, scrivere 50/60 righe al giorno e che sia finita lì. Poi si scopre che invece ci sono le voci, le immagini, i testimoni, la cronaca, il tempo che stringe, i titoli, gli spazi, la regia, la tipografia. Il campo, insomma. Dove – come sempre – avviene la selezione della specie. Non bastasse quell’idea infantile del reporter famoso, agiato e privilegiato, sono arrivati i social a rendere giornalista chiunque. Chiunque. In molti casi anche migliori di quelli qualificati: perché con il loro smartphone (invece dell’operatore o del fotografo) si sbattono, vanno in giro, approfondiscono, lanciano temi. Non pensiate che i social siano semplicemente un mondo virtuale di tastieristi avvelenati: anche qui c’è la selezione sul campo, si chiama reputazione. Se te ne fai una, ti seguono (i followers…), altrimenti ti mollano. Eccome.
Sono sbocciate ovunque dirette Facebook, Instagram, Skype e su altre piattaforme, condotte da una vera e propria regia remota: mi sono cimentato a mia volta. Chiacchierate, non interviste: mi hanno fatto compagnia e l’hanno fatta alla gente, mostrando un lato di calciatori, allenatori, artisti, deejay e anche colleghi, non conosciuto ai più. Ma non c’era, volutamente, graffio né badile per rendere quelle chiacchiere, appunto, interviste: non ho scavato più di tanto. Eppure qualcosa è emersa lo stesso. Queste dirette le ha fatte chiunque: come era successo già da anni in tv, sono diventati giornalisti tutti. E ovunque, sui social, sono sbocciate D’Urso e Fazio qualsiasi, in ogni recondito angolo.
Ecco che cosa fa la differenza, o cosa dovrebbe farla: il vero giornalista non ha autori, non lavora solo in studi accoglienti e su comode poltrone, non lavora dal divano con un bicchiere e una sigaretta sempre accesa, non vive di rassegne stampa e di riflessi altrui. Il vero giornalista non può farsi bastare lo smart working: deve stare sul campo. Quello è il nostro mestiere. A meno che l’età e le scelte non ci abbiano portato (in anticipo sui tempi) a pontificare da un divano o da uno studio tv. Parola di trombone professionista. Ho dato 46 anni al marciapiede, adesso le marchette le confeziono a casa, ma – come scrisse Kundera in uno dei suoi libri più sofferti e pesanti – la vita è altrove: è sul campo.