A Cesena, uno zio va a prendere la nipote a scuola senza la delega dei genitori, giustamente la scuola non gli affida la piccola, lui tira un pugno in faccia al preside.
Su un tram romano un passeggero si accende la sigaretta, un altro pendolare gli fa notare che è vietato, in pochi attimi finisce a botte, con qualcuno che spruzza pure lo spray urticante e provoca un marasma.
In un liceo di Castellammare di Stabia, ne ha scritto con la solita passione amara il nostro professor Cimmino, una madre prende a schiaffi l’insegnante di inglese perchè non riconosce con voti adeguati il talento della ragazzina.
A Castelbelforte, paesino del Mantovano, due ragazzine meno che quattordicenni attirano al parco una compagna di classe e poi l’aggrediscono a forbiciate, lasciandola sul prato sanguinante.
Siamo fermi alle ultimissime di cronaca, perfettamente spalmate sull’intero territorio nazionale. Manca – per non diventare noiosi – la routine delle botte tra baby-gang, delle botte a mogli e fidanzate, delle botte tra gli sgherri delle curve ultrà.
Questa non è l’iperviolenza delle mafie e dei terroristi, non è neppure quella dei ragazzi che sparano e ammazzano per una macchia sulla scarpa da mille euro: è quella che lo slang giudiziario definirebbe micro, in sostanza è la violenza quotidiana, periferica, diciamo tascabile, da borsetta, che esplode in tutti i momenti e in tutti i luoghi, sempre più di frequente, sempre più facilmente.
I meno giovani dicono: la violenza c’è sempre stata, ma io non ricordo una cosa del genere. Come per il meteo, in definitiva: mi ricordo temporali e raffiche di vento, ma così feroci e devastanti proprio no. Se mai, ultimamente sulla violenza tascabile lo stupore comincia a sfumare nell’abitudine e nella rassegnazione, fino all’indifferenza, perchè “ormai è così e c’è poco da fare”.
Effettivamente, tutto possiamo fare tranne che stupirci. Se la violenza è diventata così diffusa, comoda, pret-a-porter, i motivi ci sono. La violenza è entrata nel nostro bagaglio culturale. Meglio: l’abbiamo assorbita nel Dna durante il nostro cammino evolutivo. Usciamo da una full immersion che non poteva fallire. Abbiamo cominciato a bombardare i nostri bambini con i cartoni animati giapponesi – o similari -, in cui spade rotanti e combattenti spaziali non fanno che fracassare, disintegrare, annientare, grazie a continue trasformazioni robotiche, in un’atmosfera cupa e tetra da blade-runner h.24 (sa, Biancaneve e Gli Aristogatti sono retorici e pure sessisti, fanno male ai bambini).
Salendo di età, i nostri figli entrano nel tunnel dei videogiochi, dove ricevi persino dei premi se annienti cose e nemici, più ne fai fuori e più vai avanti, più sei cecchino e più sei qualcuno.
A seguire, la fase adulta, costruita nell’ultima epoca sul mito della potenza e della prepotenza, senza tremori e senza vergogne, emergenti decisionisti genteconlepalle, la vita come nuova gara a chi è più muscolare, in cui il migliore è il più forte, quello che ha meno scrupoli e meno dubbi, soprattutto non esita ad adottare misure spicce, se non mena le mani quanto meno usa la clava verbalmente. Le star dei talk-show non sono più i saggi e i sapienti, ma gli energumeni che insultano e che al momento giusto si alzano a rifilare due sberle, Sgarbi archetipo e caposcuola, in scia tutto il bestiario che fa audience a suon di urla, bestemmie, aggressioni.
In un mondo che gira così, che abbiamo voluto così, la violenza è basica. Entra a far parte dei fondamentali. Si incista stabilmente nel nostro linguaggio, della nostra postura, del nostro istinto. Senza che neppure ce ne accorgiamo. Ma inevitabilmente, al primo stimolo diventa la reazione naturale. Non crea neppure più rimorsi e sensi di colpa: è la nuova normalità. Può essere persino un valore. Sì, come nei cartoni animati di ultima generazione (sa, Topolino è meglio abolirlo perchè è dannatamente filo-americano, sto dannato yankee).
E quindi? Quindi il punto di arrivo è il nuovo punto di partenza: la violenza tascabile fa parte della nostra vita, perchè ci siamo allevati per bene a praticarla, ad accettarla, a promuoverla. Come nei videogiochi, come nei talk-show agitati, non ne percepiamo più il peso e la gravità. E’ una nuova padrona della nostra vita. Una delle tante, una delle peggiori.
Dio è morto, ma neppure noi ce la passiamo benissimo.
A me Dio non pare morto, e mi pare che non morirà mai. Mi pare che la sua presenza morale possa fare poco per tanti motivi, tra cui la presenza sempre più pervasiva e capillare di altre divinità più vicine, più prepotentemente rispondenti al solito nichilismo che sposta l’uomo dalla società e lo posiziona in un magnifico orticello salvifico. Il problema di fondo, a mio modesto parere, è che il mezzo valoriale non dovrebbe essere spirituale ma profondamente sociale, civile. E ogni tanto ce la fanno a farci credere che esista, in qualche modo. Peccato che sia un fantoccio, meramente estetico, con qualche spunto significativo immerso in un magma di triste superficialità. E allora si fa prima ad affermare la propria esistenza a furia di pugni e sforbiciate, costa me e soprattutto, pesa poco. Il punto è proprio questo “pesa poco”. Le coscienze sono vuote, otri deformati dall’assenza di un equilibrio costruito a piccoli passi di senso, che ci dovrebbe coinvolgere in quanto parte del tutto. Che ci dovrebbe tenere per terra proprio per la fatica bellissima di portarcela appresso, una coscienza.