LA VERGOGNOSA TENTAZIONE DI APPROVARE LA GOGNA CINESE

Quattro malinconiche figure in tuta anticontaminazione che trascinano i piedi mentre poliziotti armati le costringono a sfilare per il centro della città. Al collo dei quattro, cartelli con la fotografia, il nome e il reato a loro attribuito. Così funziona la giustizia in Cina, o almeno in una parte di essa. Qui siamo a Jingxi, nella regione meridionale del Guangxi, un’area al confine con il Vietnam.

I quattro sono accusati di aver trasportato migranti clandestini attraverso il confine, in un periodo, oltretutto, in cui le frontiere cinesi sono sigillate per via del Covid. Arrestati, eccoli sottoposti al trattamento-gogna così che tutta la cittadinanza guardi e impari: questa la fine che fa chi infrange la legge e mette in pericolo gli altri.

Siamo talmente esausti ed esasperati dalla pandemia, irritati dalle voci del pretestuoso dissenso e dalla mancanza di senso civico e di prudenza di chi sceglie di ignorare le precauzioni anche più ovvie, che la “soluzione” cinese al problema potrebbe sembrarci perfino attraente. Quante volte, davanti alle lungaggini del sistema giudiziario, alle garanzie che spesso, senza troppo soffermarci, giudichiamo assurde e complici del crimine, e anche davanti ad apparenti incongruenze di trattamento tra condannato e condannato, siamo stati tentati da queste forme di giudizio e di pena clamorose quanto affrettate, paternalistiche quanto terra a terra? “Vedrai che questi non ci riprovano” scriviamo sui social con un moto di soddisfazione, per aggiungere subito: “Da noi, ammesso che li condannino, il giorno dopo sono fuori con tante scuse”.

Siamo esasperati ed esausti, è vero, ma non al punto da dichiarare che uno Stato padre, madre e padrone è quello che vogliamo. La gogna istituita dalle autorità di Guangxi viene da lontano: perlomeno dalla Rivoluzione Culturale, quando allo stesso trattamento erano sottoposti insegnanti e piccoli funzionari di partito, professionisti e negozianti e comunque chiunque venisse sospettato, a capriccio e a scopo di vendetta, di “attività controrivoluzionaria”. Le accuse oggi sono più concrete e meno ideologiche, ma la mano che somministra la punizione è sempre la stessa: quella che acchiappa per le orecchie l’individuo il quale non è un cittadino, ma al massimo un pargolo ribelle, un’entità inferiore, comunque in soggezione rispetto allo Stato la cui volontà, che spesso si industria a far passare per interesse collettivo ma altrettanto spesso non si preoccupa neppure di provarci, è in ogni caso sovrana.

La speranza, naturalmente, è che le cose possano cambiare anche laggiù. Il commento di “Beijing News”, un organo d’informazione affiliato al Partito comunista, a onor del vero è stato netto: “Queste misure violano lo spirito della legge e non devono più accadere”. Sembrerebbe un buon segnale.

Ma che la legge cinese sia disposta a trattare gli individui come esseri umani titolari di diritti e dignità rimane tuttavia dubbio quando, poche ore dopo, la polizia ha bussato alla porta della redazione di “Stand News”, un sito pro-democrazia di Hong Kong, chiudendo baracca e burattini e arrestando sei giornalisti in base alle solite generiche accuse di “cospirazione per la pubblicazione di materiale sedizioso”, un’arma legale fornita alle attuali autorità, per ironia, da una vecchia norma coloniale.

Il capo degli agenti incaricati del blitz non ha voluto essere ripreso: la parata della vergogna, evidentemente, non è uguale per tutti.

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