LA VERGOGNA DELL’ITALIA CHE IMPORTA I POMODORI CINESI PRODOTTI IN SCHIAVITU’

In un articolo pubblicato dal “South China Morning Post”, dal titolo “Why has the US ban on Xinjiang’s tomato exports had such limited effect?”, vengono riportati dati molto preoccupanti circa la sicurezza e l’eticità del settore alimentare del nostro Paese.

L’articolo prende spunto dal divieto statunitense alle importazioni di pomodori cinesi provenienti dalla regione dello Xinjiang, in quanto indicati da Washington come prodotti “ad alto rischio” ai sensi dell’Uygur Forced Labor Prevention Act, una legge federale degli Stati Uniti che modifica la politica sulla regione autonoma uigura dello Xinjiang cinese, per impedire il finanziamento del lavoro forzato delle minoranze etniche in quella Regione.

In questa zona della Cina, a forte vocazione agricola, sono due le principali colture: cotone e pomodoro.

Le due produzioni dello Xinjiang ricoprono un ruolo cruciale nella catena di approvvigionamento globale; in quella regione vengono prodotti un quarto dei pomodori del pianeta e un quinto delle fibre di cotone.

Ma mentre la fibra tessile viene utilizzata per far fronte alle richieste delle industrie locali, al contrario il pomodoro viene esportato in tutto il mondo.

Infatti, nonostante il blocco delle importazioni statunitensi, i cinesi possono contare su altri 80 paesi che riescono a soddisfare il proprio fabbisogno di pomodori solo grazie a questa regione asiatica.

Ma sapete di questi 80 paesi qual è il più importante importatore di pomodori dello Xinjiang? Non vi sforzate troppo, ci viviamo.

L’Italia nei primi sette mesi del 2022 ha assorbito quasi il 20% delle esportazioni della regione cinese (dati delle Autorità doganali cinesi). In questa classifica è seguita da Russia (16% delle esportazioni totali), Ghana e Filippine, ciascuna delle quali ha importato circa il 6% della produzione totale.

Ma in che modo lo Xinjiang è diventato un importante produttore mondiale di pomodori?

Lo Xinjiang è emerso come il principale produttore cinese grazie alle sue caratteristiche pedoclimatiche: si estende lungo la latitudine 34-49 nord, gode di un ottimo fotoperiodo e di un’ampia escursione termica giornaliera.

Ma oltre a queste condizioni naturali, l’industria del pomodoro di questa regione si giova di un particolarissimo “punto di forza”: il costo della forza lavoro. Risibile.

La Cina viene accusata dalle maggiori istituzioni mondiali di utilizzare per la produzione di pomodori (e non solo) deportati di etnia Uigura, una popolazione oggetto di presunta persecuzione da parte del governo di Pechino (che nega con veemenza), sottoponendoli a lavori forzati che di fatto neutralizzano i costi di manodopera.

Con le dovute differenze, anche l’Italia non è esente da fenomeni di sfruttamento dei lavoratori: il fenomeno del caporalato e le condizioni economiche e di vita dei lavoratori, spesso immigrati, assume dimensioni e contorni indegni di un paese civile.

Lo sfruttamento della manodopera rischia di rappresentare il denominatore comune del comparto della produzione del pomodoro, come se fosse una precondizione per mantenere i costi di produzione inferiori a una soglia limite.

Ma noi italici non ci limitiamo ad essere i principali importatori di pomodoro dallo Xinjiang, il “South China Morning Post” ci accusa di aver inventato questa attività in quella parte del mondo a partire dal 1978.

Nei primi sette mesi di quest’anno, lo Xinjiang ha esportato oltre 290.000 tonnellate di concentrato di pomodoro, per un valore di 256 milioni di dollari, e se tanto mi dà tanto, di questo prodotto 58.000 tonnellate giungono in Italia.

Il destino del pomodoro che giunge nel Belpaese è poi avvolto nel mistero: le maggiori aziende importatrici assicurano che viene trasformato e successivamente destinato all’esportazione: dati statistici e sentenze della magistratura per frode dimostrano ben altro.

Il più grande scandalo relativo a frodi alimentari in Italia è stato commesso l’anno scorso e ha visto come protagonista l’azienda Petti, che si è vista sequestrare 4.000 tonnellate di conserve etichettate come italiane, ma di provenienza cinese. Recentemente i vertici dell’azienda toscana hanno patteggiato una pena per questo reato.

Il sotterfugio, la truffa, lo sfruttamento, l’inganno, sono sempre in agguato quando si tratta di ridurre i costi e massimizzare i profitti, per non parlare del trattare la salute umana come un requisito accessorio.

Vale sempre quanto scritto da Michael Pollan: “Il cibo a basso prezzo è un’illusione. Non esiste. Il vero costo del cibo alla fine viene pagato da qualche parte. E se non lo paghiamo alla cassa, lo pagano l’ambiente e la nostra salute”.

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