LA SOLITUDINE DISPERATA DI BORSELLINO, TRENT’ANNI DOPO

C’è un dossier dell’agenzia Ansa pubblicato con questo titolo: “Borsellino: trent’anni dopo la strage ancora senza verità”. Una sintesi che, fossimo in un Paese asfaltato con la verità, nel quale la verità – con V maiuscola o senza, a scelta – spunta fitta come le zinnie nelle aiuole del lungomare, fossimo nel Paese, dicevo, del certo e del vero, costringerebbe chiunque a sobbalzare sulla sedia e a scendere in strada, canicola o non canicola, per manifestare, protestare, esigere. Persino per cacciar via un po’ di gente da quello che, una volta, si chiamava Palazzo.

Siamo in Italia, invece, è qui la verità, già rara, si ritira ultimamente come fanno i ghiacciai. Trent’anni senza risposte, a dirla tutta, non sono neppure un record: esistono aree, nella mappa storica di questa Repubblica, grigie e inesplorate da ben più tempo.

Spiega l’Ansa che “decine di sentenze hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato di via D’Amelio”, ma “restano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa Nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla, fino ai nomi degli autori del depistaggio sulle indagini dell’eccidio”.

Sarebbe dunque opportuno che, pur nella disillusione, nell’abitudine alla palude, alla vaghezza, alla costante distorsione dei fatti, trovassimo la forza e il coraggio di indignarci e di protestare per l’ignavia di uno Stato ancora incapace di rendere piena giustizia a uno dei suoi uomini più integri e coraggiosi. Ma una volta che abbiamo scritto di questa opportunità, e nello scriverla ci abbiamo creduto, sappiamo subito che non basterà a scalfire il muro di indifferenza che, le istituzioni prima e la società civile poi, hanno eretto intorno a questa e ad altre tragiche vicende, non basterà a illuminare l’oceano di ignoranza che si estende tra noi e la storia più dolorosa di questo Paese.

Forse, il dossier dell’Ansa, con la sua sconsolata conclusione, ci è utile per una sola ragione: a trent’anni di distanza da quel 19 luglio – nel quale, oltre al giudice, morirono nella deflagrazione dell’auto-bomba anche cinque agenti della scorta (tra cui una donna: Emanuela Loi) – sapere che di quel delitto ancora non conosciamo pienamente i contorni, ci fa pensare alla solitudine dell’uomo e del magistrato. Ancora oggi, da morto, Paolo Borsellino è lasciato solo come fu da vivo. E come fu solo in quei due mesi che separano il suo attentato da quello del 23 maggio che uccise il collega-amico Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e, ancora, tre agenti di scorta, soldati-martiri di quella guerra sporca e ingiusta: solo come nessuno prima di lui. Solo con la consapevolezza di aver perduto l’unica persona che poteva comprendere l’ampiezza dello sforzo di opporsi alla malavita organizzata, l’unica che, con lui, ne aveva toccato con mano la tremenda presa esercitata sulla società civile, l’unica a sapere esattamente la portata e, quasi, il sapore dei rischi che correva chi cercava di contrastarla. Solo, infine, con la certezza che la mafia, dopo aver eliminato Falcone, avrebbe eliminato anche lui: in qualunque momento e a qualunque costo, solo una questione di tempo, poco tempo. La spaventosa grandiosità dell’attentato di Capaci era la prova più evidente di quella determinazione.

Un meraviglioso film di Robert Bresson, “Un condannato a morte è fuggito”, racconta senza inutile retorica ma con nuda precisione gli sforzi di un membro della Resistenza francese per sfuggire alla prigione in cui è stato rinchiuso in attesa dell’esecuzione. Sullo schermo passano i gesti e, in qualche modo, i pensieri di un uomo che, a dispetto della situazione in cui si trova, non perde mai la speranza. Borsellino era costretto in una prigione ben peggiore: quella che di speranze non ne lascia: solo un poco di tempo, un giorno, forse un altro giorno ancora. Ma la fuga, quella no, quella mai. E ogni giorno che passa, “senza verità da trent’anni” come scrive l’Ansa, quella feroce sentenza di morte viene ripetuta.

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