LA SCOPERTA DEL TEMPO

di FABIO GATTI – Quanto tempo è passato dall’inizio dell’epidemia? Qualche mese risponderebbe il razionalista, un attimo direbbe l’ottimista, un’infinità il pessimista.

Il tempo, come hanno spiegato Henri Bergson dal versante filosofico e Albert Einstein da quello scientifico, è una sensazione interiore, un’elaborazione mentale, un fatto personale soggetto alla teoria della relatività più che un’entità matematica assoluta. E ce ne accorgiamo bene tutti, senza essere geni di qualche scienza, soprattutto in periodi come questo, in cui la percezione del tempo viene distorta e falsata dalla sospensione della quotidianità e dalla monotonia di giorni che si susseguono eternamente uguali a se stessi.

Con il tempo gli esseri umani hanno da sempre un rapporto molto complicato: siamo ossessionati dal suo implacabile trascorrere, cerchiamo in ogni modo di esorcizzarne gli effetti fisici e mentali, eppure l’umanità – perlomeno una maggioranza schiacciante – festeggia sempre entusiasta il compimento di un compleanno o l’arrivo di un nuovo anno. Il nostro atteggiamento paradossale nei confronti del tempo è quello che si tiene con qualcosa che non si riesce a capire fino in fondo, a imbrigliare in schemi rassicuranti: qualcosa da cui si è ora attratti ora spaventati, ora intimoriti ora rassicurati.

Il tempo è uno dei grandi misteri della nostra vita: non si può vedere ma c’è, e ne sono fin troppo evidenti gli effetti, che vediamo giorno dopo giorno sul volto di chi ci sta accanto, quando compare una ruga sulla fronte o un capello bianco, quando la voce leggera del bambino diventa quella profonda dell’uomo, quando la linea verticale di un corpo inizia a incurvarsi quasi a volersi ricongiungere, anche nella postura, a quell’età felice e infantile di cui iniziano a riemergere esigenze e bisogni. Ma il tempo non si fa sentire solo a un livello corporeo e materiale: ti accorgi che passa quando vedi in te stesso o negli altri affievolirsi entusiasmi e intemperanze, o comparire ansie e manie prima latenti.

Al di là delle diverse reazioni, gli effetti del tempo sugli uomini sono ineludibili. Non sarà un caso che nessuna cultura abbia rinunciato a esprimere una propria visione del tempo, come degli altri grandi misteri, da Dio alla morte: nella mentalità medievale, integralmente religiosa, veniva concepito come qualcosa di assolutamente trascendente, appartenente non all’uomo ma a Dio, o al massimo alla natura, e quindi alla ciclica ripetitività delle stagioni; in età rinascimentale, al contrario, il tempo viene ricondotto totalmente all’ambito delle prerogative dell’uomo, che può controllarlo e organizzarlo, che deve farsi faber fortunae suae e signore del proprio tempo se vuole divenire, come scrive Leon Battista Alberti, “signore di qualunque cosa ei voglia”.

La moderna tendenza a regolare il tempo in base ad esigenze umane – ad esempio introducendo l’orario legale per guadagnare luce e risparmiare denaro – è figlia proprio dell’agonismo rinascimentale, di quella cultura che esalta la capacità dell’uomo di incidere sul mondo e sulla Storia. Per amor di verità, però, si deve aggiungere che quella tendenza è una figlia degenere, perché l’uomo d’oggi è ossessionato dal tempo, tanto da ridurlo a orario, puro minutaggio, da calcolare e da riempire fino all’inverosimile, nell’illusione che così non si sprechi; l’ossessione raggiunge uno stadio parossistico quando non si accetta che il tempo sfugga, e anziché impegnarsi per non perderlo si cerca di esorcizzarlo con effimeri trucchi, figurati o meno.

Come l’acqua evapora o si solidifica, così il tempo può sublimarsi, divenendo eternità, o concretizzarsi, divenendo Storia e storie, cioè cronaca, vita       quotidiana. La prima dimensione è per noi talmente inimmaginabile che riusciamo a pensare a uno spazio perfetto (chiamiamolo Paradiso) e a un’entità perfetta (chiamiamola Dio), ma non a un tempo perfetto, cioè un tempo senza tempo, una dimensione atemporale che pure sembrerebbe esistere anche ad un livello scientifico nel fenomeno dei “buchi neri”. La dimensione della Storia, cioè della progressione lineare con un inizio e una fine, ci inquieta – è certo il primo movente che spinge verso la religione –, ma in parte ci rassicura, perché ci dà la certezza che ogni momento, anche il più buio, possa lasciare posto a un altro, magari più felice: oggi più che mai sogniamo che il tempo in cui siamo imbrigliati abbia un termine netto e definitivo, che possibilmente si presenti il più presto possibile.

La cognizione del tempo è uno dei privilegi e insieme dei crucci della condizione umana: la memoria, sorella del tempo, è capace di stravolgere a proprio piacere la rigida successione di momenti per trasformarla in un vortice unico in cui passato e presente si confondono e si richiamano, oltrepassando i limiti dell’esistenza individuale per proiettarsi su tempi remoti. Epicuro osservava che nelle situazioni di dolore si può provare piacere ricordando il felice tempo passato o attendendo un migliore futuro: è questo, in fondo, l’unico vero modo per fare del tempo un amico consolatore e non un temibile avversario.

 

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