LA RIDICOLA IPOCRISIA DELLA SCALA CHE METTE LE MUTANDE A VERDI

Come si fa a mettere una maschera al “Ballo in maschera”? In un impeto di zelo politicamente corretto il Teatro alla Scala c’è riuscito e ha cambiato il libretto del capolavoro di Giuseppe Verdi con la matita blu per non “creare imbarazzo al pubblico di colore”. Così la strofa “dell’immondo sangue dei negri” riferita alla fattucchiera Urlica, viene sostituita con “Urlica, del demonio maga servile”.

Uno schiocco di dita e il leggero mal di pancia a colazione scompare, tanto il maestro di Busseto giace da oltre un secolo, il librettista Antonio Somma neanche a parlarne. E invece l’attivista Black Lives Matter potrebbe alzarsi in platea e dare del razzista al tenore, al secondo violino, all’attrezzista, al sovrintendente Dominique Meyer. Insomma a tutti, con automatica canea del giornalista collettivo delle coscienze.

Il fatto merita la segnalazione per due motivi: è il più recente caso di Cancel culture all’italiana ed è un esempio di ipocrisia somma in un Paese che si sente così virile e muscolare dall’essere a un passo dal dichiarare guerra alla Russia. Ci prudono le mani, vorremmo sparare all’invasore Yuri, ma non riusciamo a reggere la responsabilità filologica di un testo musicale del 1858. Molto bene.

Per la verità quel passaggio del “Ballo in maschera” negli ultimi decenni non ha avuto vita facile: nel 1989 Von Karajan (che non andava per il sottile) si era piegato alla correctness della mondanità austriaca cambiando la strofa in “immondo sangue gitano” per il festival di Salisburgo, ma gli avevano fatto notare che la faccenda rimaneva spinosa. Qualche anno prima Claudio Abbado visse giornate di imbarazzo perché accanto a Pavarotti, sul palco, c’era Shirley Verrett, strepitosa mezzosoprano di colore.

I melomani sono sul piede di guerra, parlano di oltraggio a Verdi e forse non sanno che quel passaggio non è l’unico modificato. Ai censori è scivolata la mano col bianchetto. Poiché “Si batte!” viene ritenuto equivoco è stato sostituito con “Chi giunge!”. Al posto di “bear di voluttà” compare un inventato “d’amor mi brillerà”.

Insomma, si passeggia su Verdi con allegria da terzo grappino e tutto ciò sembra legittimo negli anni della società liquida (e un po’ liquefatta). A tal punto che il gioco di parole “Ma che gelida Manon” potrebbe diventare un’opzione per la prossima stagione lirica.

Non vivendo nelle caverne ci rendiamo conto delle fragilità esteriori del mondo d’oggi e sappiamo che lo spirito di adattamento tartufesco (altro che resilienza) è diventato un valore. Se Papa Francesco ha cambiato il “Padre Nostro” significa che niente è immutabile, neppure Verdi. Ma è curioso notare come il mondo della cultura sia sempre pronto ad aprire l’ombrello alle prime gocce di pioggia, con sprezzo del ridicolo. Senza andare a rivangare il Dostoevskij negato all’Università Bicocca perché russo, basti ricordare la “Carmen” di Bizet che non muore, a Firenze nel 2018, per la prima volta da quando è nata. Perché mai? «Per lanciare un messaggio contro il femminicidio».

Il conformismo galoppante ci regala sprazzi di leggiadra ambiguità e ci impedisce di soppesare caso per caso. C’è ovviamente una differenza fra la provocazione proterva di Quentin Tarantino che usa per 24 volte la parola negro in ”Django Unchained” – Spike Lee gli ha tolto il saluto – e una strofa di melodramma ottocentesco. Ma questo non interessa a nessuno, perché il terrore corre sul filo.

Sempre a Milano, qualche mese fa, alla Triennale, ad attirare l’attenzione è stata la bellissima mostra sull’opera poliedrica di Saul Steinberg (scrittore, editore, architetto, vignettista, grafico, umorista, intellettuale mai banale). Fra centinaia di lettere, bozzetti, disegni, pensieri esposti, ce n’era uno sfuggito ai curatori. In una lettera del 1946 da Manhattan all’amico Cesare Zavattini, Steinberg scriveva: «Ci sono a New York un centinaio circa di gallerie d’arte. Molta arte buona è in mano dei finocchi che la fanno diventare chic. Bisogna organizzare la guerra ai finocchi, morali e fisici. Ma è un gran paese questo, c’è posto per tutti e, più importante, nessuno ti rompe le scatTole». Proprio con doppia «tt».

Su quella frase, 75 anni dopo, qualcuno gliele ha rotte eccome, le scatole, con tre o quattro “t”. A tal punto che sulla teca che ospitava la lettera è comparsa una pecetta da paraguru: “I curatori di questa esposizione sono consapevoli che alcune delle opinioni espresse dall’autore potrebbero legittimamente urtare la sensibilità del pubblico; l’uso dei termini qui impiegati appartiene infatti a un gergo non accettabile”.

Il presidente della Triennale Stefano Boeri e i curatori hanno effettivamente rischiato grosso: se fosse passato il Ddl Zan sarebbero stati incriminati per omofobia e istigazione alla violenza. Più facile mettere le mutande a Verdi, lui arriccia i baffoni sulla statua ma non protesta.

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