LA PSICOLOGA: RIABILITARSI ALLA VITA

MICAELA UCCHIELLI è psicologa, psicoterapeuta, docente Tutor IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata):  

Possiamo immaginare la pandemia che stiamo vivendo come un nome del trauma. Ma cos’è un trauma? Come lo si può definire? E come possiamo affrontarlo?

Trauma deriva dal greco ed etimologicamente significa ferita, rottura violenta, lacerazione. Sigmund Freud considerava traumatica una situazione, isolata o ripetuta nel tempo che, producendo un più di eccitazione psichica, provocava una profonda lacerazione nell’esistenza di un soggetto. Lacerazione che richiedeva la necessità di una riorganizzazione dell’assetto psichico e delle sue difese che, per garantire la sopravvivenza psicologica dell’individuo, prendevano la via del sintomo.

Un trauma, ogni trauma, disorganizza il quadro del mondo; si presenta come un evento inatteso ed improvviso che irrompe nella scena, interrompendo la continuità dell’esistenza e l’organizzazione psichica di un soggetto ed eccedendo la sua abituale possibilità di farvi i conti. Il trauma lascia senza parole. Il trauma è senza senso.

L’incontro col trauma è dunque l’incontro con qualcosa di impossibile da dire e di non integrabile in un prima. Per la psicoanalisi il trauma non è mai oggettivo ma sempre e soltanto soggettivo: se ci sono eventi che possiamo definire di portata traumatica da un punto di vista collettivo, come terremoti, guerre o pandemie, ciò che fa trauma è sempre l’incontro di quel soggetto con quell’evento. Non tutti reagiscono infatti allo stesso modo: ogni risposta è singolare e muove dalla lettura che il soggetto fornisce, dell’incontro con la rottura che il trauma introduce. Il trauma irrompe e squarcia la tela dell’esistenza soggettiva tracciando una linea di demarcazione netta fra un prima e un dopo.

Un prima libero dal virus, dall’angoscia collettiva del contagio e della morte, dalla necessità della distanza, dalla perdita della libertà, dalla precarietà economica, dalla rinuncia alla nostra vita e alle sue abitudini. E un dopo. Ci sarà un dopo, di cui tuttavia non sappiamo poiché parlare ora degli effetti di questo trauma non è possibile. E non è possibile perchè siamo ancora dentro il trauma, in una fase viva, siamo nella tempesta anche se chiusi nella bolla delle nostre case, paradossalmente al sicuro. Siamo troppo inondati dall’eccesso di contagi, di morti, di notizie, di informazioni, di parole esperte.

Mai come in questo tempo incontriamo la figura dell’esperto chiamato a dirne qualcosa. Ci appelliamo al sapere come analgesico, come cura. Domandiamo la risposta ultima, il vaccino, la soluzione alla crisi economica. Domandiamo una cura all’angoscia, effetto ineliminabile dell’eccesso di sapere.

L’angoscia sorge per la psicoanalisi quando siamo ridotti al nostro corpo. Puro oggetto. Siamo corpi ammalabili, soggetti inermi, in una casa-prigione, in attesa che l’Altro ci dica cosa fare, ci orienti, ci informi. Possiamo domandarci: cosa ce ne faremo di quello che resterà?

Perchè qualcosa resterà. Non ci liberemo di questa devastazione ma avremo l’occasione di farcene qualcosa. E per fare qualcosa col resto che il trauma lascia, occorrerà un tempo.

Ora siamo giustificati al ritiro. Giustificati all’assenza di libertà e costretti a giustificare la libertà, autocertificando le nostre uscite. Quando usciremo davvero, senza giustificazione, quando torneremo liberi, dovremo fare i conti col deserto. Abitarlo. A quel punto saremo, come direbbe Sartre, soli e senza scuse. La verità che il Covid 19 ci fa incontrare è la solitudine come strutturale, passaggio obbligato di ogni analisi, l’assenza di garanzia che domandiamo, ostinatamente all’Altro, per tutta la nostra esistenza. Dovremo fare il lutto della vita di prima, che non potrà più, necessariamente, essere la stessa. L’effetto depressivo che ogni lutto comporta andrà visto e declinato singolarmente, a partire dalle parole dei nostri pazienti.

Ora, come esperti, anche noi, del sapere inconscio, abbiamo risposto all’urgenza pur sapendo bene che ogni parola, per essere parola piena, necessita di un tempo di sedimentazione. Ascoltiamo, diamo voce a questa angoscia, alla paura, all’ansia, al senso di impotenza; i pazienti non parlano che di questo. Ma potremo parlare degli effetti soggettivi solo dopo. Ora non è il tempo. Ora è il tempo dell’ascolto, dell’attesa è il tempo di vedere. E’ il tempo della cura che accoglie, che fa posto, che dice si. Poi verrà il tempo di comprendere. Quando avremo ascoltato molte voci.

E infine ci sarà il tempo di concludere. Per adesso, si tratta di fare un passo indietro rispetto a tutti i saperi. Questo virus è sconosciuto e nuovo, eppure ci invade. È come l’inconscio, un territorio straniero interno. Possiamo solo farlo parlare e metterci in ascolto.

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