LA PRESIDE, LA CICCIA DELLE ALLIEVE E UNA GRANDE ASSENTE: LA LIBERTA’ (VERA)

Leggo sul sito del “Corriere” un articolo di Dacia Maraini sui fatti di una scuola, se non ricordo male, di Vicenza. La preside aveva esortato le studentesse a evitare di mettere in mostra “la ciccia”. Tutto quello che è successo poi ha rispettato al millimetro il copione: gli studenti hanno fatto sciopero per protesta, diversi genitori hanno partecipato allo sciopero, la preside ha dovuto, di fatto, chiedere scusa. Non so come si è conclusa o si concluderà la guerra degli hot pants e della ciccia. E, a essere sinceri, non interessa neppure.

Interessa, invece, quello che dice Dacia Maraini. La scrittrice si chiede se si è veramente liberi di vestirsi come si vuole, sempre, ovunque. E risponde che no, non si è liberi. Di fatto non ci si veste come piace a noi, ma come piace alla moda. “Come spiegare altrimenti i blue jeans stracciati e bucati che non si sono mai visti prima e che ora portano con noncuranza tantissime ragazze e ragazzi? Come spiegare i tatuaggi sulle braccia, sul collo, sulle gambe in bella vista? Come spiegare i capelli rasati sulle tempie e sbuffanti in alto come un bauletto per i maschi e le pettinature alla madonna, lisci sulle orecchie che finiscono coi riccioli sul collo per le femmine? Come spiegare le scarpe firmate, il colore viola che viene gettato sul mercato un anno e l’anno dopo il colore verde, eccetera?”.

Dacia Maraini non se lo chiede. Me lo chiedo, sommessamente, io. Allora perché si fa sciopero? Per essere liberi? Evidentemente no, ma per essere liberi di non essere liberi. Supponiamo infatti che, dopo le scuse, la preside tragga una conseguenza, e dica: “Fate come volete”. Questo, in tutta evidenza, non significherebbe: siete liberi, ma siete liberi di vestire o di svestirvi come detta la moda. Cioè, appunto, siete liberi di continuare a non essere liberi.

Con una conseguenza drammaticamente evidente. Dunque: non solo non si è liberi, ma non si è liberi neppure di dirlo. Proibito essere liberi. Proibito dire che si è schiavi. “Proibito proibire” era scritto sui muri di Parigi durante il maggio ’68. Bisogna, dunque, aggiornare lo slogan: “Proibito dire che è proibito”.

Poi, d’accordo, Dacia Maraini fa notare che anche la preside ha le sue colpe. Soprattutto la preside ha la colpa di avere usato un linguaggio inadeguato. Anche il linguaggio della preside è “alla moda” e anch’esso è, in pratica, segno di poca libertà. “Non si tratta di una questione di «cellulite», di «sederi», di «tette», come si è scritto, ma di pensiero. Il linguaggio di un luogo dedito alla riflessione e alla conoscenza vuole una discrezione che riguarda la serietà dell’impresa di apprendimento e non altro. Anche il pensiero dei dirigenti ha un linguaggio e quello della preside, sempre che sia vero ciò che si riferisce, lo trovo fuori luogo e sprezzante”.

Dunque, conclusione di tutte le conclusioni: la libertà resta un’utopia. Ci si può costruire la libertà nel ristretto recinto della propria casa e delle proprie relazioni corte, anzi: cortissime. Se ci si riesce. Poi, quando si esce da quei recinti, ci si deve adeguare e la libertà finisce, sia che si metta in mostra la ciccia, sia che si denunci di averla mostrata. E tutti vissero (in)felici e (s)contenti.

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