LA NOSTRA GUERRA SI CHIAMA MOVIDA

Se insieme agli “asset” russi in Europa congelassimo anche l’uso del termine “movida” ecco che avremmo fatto un bel passo avanti. Non verso la risoluzione del conflitto in Ucraina, certo che no, ma almeno in direzione della sempre più necessaria mondatura della nostra lingua da termini superflui e fuorvianti. Molti, anche a ragione, se la prendono con il frequente e disinvolto uso di parole inglesi – io stesso sono caduto in questa trappola scrivendo “asset” invece di “beni” -: a me sembra però che il problema non sia tanto la provenienza della parola quanto la sua adesione al concetto. Parlare di “movida” per definire le nottate alcoliche e violente nelle città italiane significa mancare il bersaglio della definizione e, anzi, stornare a forza una parola dalla sua propensione a esprimere un concetto positivo per indirizzarla verso un’accezione negativa.

Secondo la Treccani, che ha ammesso il termine nel nostro vocabolario prelevandolo dallo spagnolo, “movida” sta a indicare il vivace clima culturale della Madrid post-franchista. Come seconda definizione ammette il riferimento alla “vita serale e notturna” di una città, aggiungendo però che si tratta di una definizione “per lo più scherzosa”.

Scherza oggi, scherza domani è andata a finire che “movida”, nelle cronache, è diventato sinonimo di weekend turbolento, ovvero di risse, aggressioni, rapine, sangue, cose che, con tutta la buona volontà, non denotano affatto un “vivace clima culturale”, ma l’esatto contrario.

L’ultimo caso di “movida” alla rovescia risale allo scorso weekend. Ma ormai sembra la regola di ogni weekend. E non solo. Siamo a Milano, Milano by-night, Milano capitale anche in questo, pieno centro, un tratto di strada lungo non più di duecento metri tra piazza Gae Aulenti e corso Como. Nella notte, mentre la gioventù milanese cercava di vivacizzare il clima culturale alzando innanzitutto il tasso alcolico, tra le 2,50 e le 5,50 del mattino si sono susseguite le chiamate al soccorso e alle forze dell’ordine. Liti, rapine, accoltellamenti. Cinque feriti in tutto. Responsabile delle violenze, in tre casi, un gruppo di giovani che le cronache definiscono “di origine nordafricana”, comunque all’apparenza stranieri. Le pericolose bravate, però, non sembrerebbero circoscritte a questa squadraccia: a vivacizzare il clima culturale a filo di coltello avrebbero contribuito anche altri gentiluomini.

A questo punto, sarebbe facile farsi partire un embolo sociologico e sdottoreggiare sul disagio, la mancanza di valori, lo stress post-traumatico da reduci del lockdown, la crisi della famiglia, la globalizzazione e il fallimento delle politiche di accoglienza. Più modestamente, dovremmo per prima cosa ammettere che non da oggi i weekend dei giovani sono turbolenti e alimentati ad alcol e perfino a droghe. Non da oggi qualche confronto verbale finisce per trascendere in rissa e la comparsa dei coltelli, anche quella, non è precisamente inedita.

Nuova, o relativamente nuova, appare invece l’infiltrazione criminale e vandalica nel divertimento, la ricerca organizzata e sistematica della violenza e del furto, l’imposizione di una torbida mescolanza tra socializzazione e aggressione. Lascio ovviamente agli esperti il compito di produrre un’analisi dettagliata del fenomeno. Mi permetto solo di notare come, ad aiutarlo e a incoraggiarlo, provveda senz’altro la generale stupidità sociale.

Anche qui: una circostanza non nuova. Eppure mai come oggi abbiamo la tendenza ad accettare e perfino ad alimentarla, quasi a coccolarla. Tanto è vero che permettiamo al linguaggio di contorcersi in metamorfosi aberranti e a una parola – “movida” – di accendere nelle nostre teste l’idea esattamente contraria a quella che dovrebbe.

 

 

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