LA NOSTALGIA DEL COM’ERAVAMO

di MICAELA UCCHIELLI (psicologa e psicoterapeuta) – Tornare alla vita, finalmente liberati, rianimati, usciti dalla clausura forzata e accorgersi che niente è più come prima.

Camminare per strada incrociando lo sguardo degli altri, unica parte visibile di un volto coperto da un’anonima mascherina. Domandarsi: e ora? Cosa è rimasto di come eravamo?

Fermarsi a parlare, con l’ingombro di quella copertura che quasi impedisce il respiro, obbligandoci a reintrodurre la stessa aria che è fatta per uscire, per l’apertura, per andare nel mondo.

La tentazione della nostalgia è forte e si fa strada con insistenza. Il meglio c’è già stato, recita il motto ossessivo, e forse questa volta non possiamo dargli torto del tutto.

Certamente quello che c’è stato lo conoscevamo e ci piaceva. Ci piacevano le strade affollate, i parchi brulicanti di bambini in movimento, il viale del mare solcato dai passi di corsa e da quelli lenti, il ristorante la sera, il cappuccino e il giornale il mattino, per alcuni di noi irrinunciabili rituali.

Ci piacevano gli aperitivi al tramonto, persino i treni in ritardo che ci portavano verso un altrove, i concerti, i teatri, l’odore dei popcorn al cinema.

Ci piaceva andarcene e ci piaceva tornare, ci piacevano gli abbracci e anche i baci, ci piaceva il non stare attenti alle distanze, la possibilità di scambiarci il bicchiere e fare un tiro dalla stessa sigaretta, ci piaceva quella prossimità dei corpi, capace di illuderci di essere meno soli.

Ci piaceva tutto quel rumore, tutta quella confusione, quel pieno di gente e di vita da cui, per scelta, potevamo sottrarci.

Si, perché prima di questo virus isolarsi era una decisione soggettiva, come anche ritirarsi per la necessità del silenzio o scegliere di starsene a casa, mentre fuori la vita imponeva il suo svolgersi.

Poi l’isolamento è arrivato come scelta decisa dall’altro, imposta dalla serie successiva dei decreti.

E così abbiamo tutti imparato che la libertà non ci appartiene fino in fondo, che essa si annoda alla legge e che non è mai anarchica ma, sempre, rispettosa dell’altrui libertà.

Ora che stiamo tornando liberi non possiamo fare a meno di domandarci: di che libertà si tratta?

Vigilata, verrebbe da dire, sicuramente parziale: ma non lo è, in fondo, ogni vera libertà? Se è vero che solo il folle è l’uomo libero, certamente sì.

Nonostante questo, siamo costretti a vedere che non saremo più liberi come eravamo, almeno per un certo periodo di tempo, liberi ad esempio di non accorgerci di quella libertà, data per scontata.

Alberga nell’essere umano, in ogni essere umano, una tendenza nostalgica a volgere lo sguardo indietro, in quel tempo mitico presunto essere stato migliore, e se, da un lato, possiamo dire che il tempo che verrà dopo la riapertura presta il fianco a questa nostalgia, a quel malinconico come eravamo, dall’altro esso ci obbliga a vederlo davvero, come eravamo.

Eravamo liberi di essere accelerati, ingombrati, protesi in avanti nella rincorsa di oggetti sempre nuovi, ci sentivamo potenti. Sempre collegati per scelta, pieni di amici virtuali e, come oggi, a distanza.

Eravamo nel tempo del godimento imposto dalle leggi del capitalismo, nel tempo dell’avere come cura alla mancanza d’essere, nel tempo dei legami liquidi alla Bauman, nel tempo della chiusura dei porti, della demarcazione dei confini.

Eravamo nel tempo della mancanza di tempo, tempo per gli affetti e per noi stessi. Poi questo tempo è arrivato ed è diventato troppo.

Verrebbe da pensare che quello che eravamo, in fin dei conti, ci manca a partire dal fatto che non è più: viviamo uno sfasamento temporale che ci impone un’ insoddisfazione perpetua, protesi verso un passato che non è mai quello che ci appare ed un futuro non meno idealizzato.

Può darsi allora che quello che eravamo sia in realtà ancora tutto da costruire. E che, alla fine, forse, nemmeno al detto dell’isterica possiamo dare torto del tutto, nella misura in cui esso recita che… il meglio deve ancora venire.

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