LA MIA ODISSEA PER FARMI UMILIARE DA ALEXA

Non so che cosa possa avermi posseduto per arrivare d’un tratto a imbarcarmi nell’impresa di rendere la mia casa, o almeno parte di essa, “intelligente”. Il tutto, si badi, senza l’intervento di un esperto o di un tecnico competente. Al contrario, affidando ogni cosa a uno speranzoso “fai da te”, ovvero all’istinto di chi sopravvaluta le proprie capacità e, come paracadute, conta soltanto sui “tutorial” di YouTube.

Credetemi: l’idea di rendere una casa “intelligente” senza alcuna competenza di domotica non è, in sé, un’idea intelligente. Lo so ora che, dopo due settimane di sforzi, la casa in sé sarà pure diventata un poco più intelligente, ma il sottoscritto – a 58 anni suonati – ha dato fondo alle sue energie mentali e deve ammettere che, nel bilancio complessivo, in fatto di intelligenza ha perduto qualcosa.

La casa ha però guadagnato una nuova inquilina: Alexa, l’assistente vocale di Amazon, ora contattabile da due locali e, naturalmente, dal telefonino, con il quale ormai tutti viviamo in simbiosi. Grazie ad Alexa, a un grappolo di app installate sul medesimo telefonino e a un’emorragia cerebrale in potenza, oggi posso comandare a voce le luci del salotto, spegnere e accendere il televisore, alzare e abbassare il volume in ragione di incrementi e decrementi assolutamente imprevedibili, avviare il lettore dvd (ma non aprire e chiudere il cassetto nel quale infilare il dischetto) e ordinare la serie Netflix o Prime Video che voglio vedere.

Un enorme passo avanti per l’umanità, paragonabile a quello di Armstrong (il trombettista o l’astronauta o il ciclista, fate voi), che mi risparmia il logorante impegno di premere con un polpastrello sui bottoni del telecomando e di raggiungere tramite estensione del braccio gli interruttori applicati alle pareti, ma che richiede, ovviamente, un costo. Se poteste vedermi oltre le mura domestiche, assistereste allo spettacolo di un uomo di mezza età che si aggira impartendo ordini a un’entità invisibile – Alexa, appunto – la quale nella metà dei casi esegue quanto richiesto, ma nell’altra reagisce ignorandomi o equivocando le mie intenzioni.

Qualcuno potrebbe osservare che il 50% di risposte positive per un novello utente non è poi un risultato malvagio, ma dovete tener conto che venir snobbati da un’assistente vocale è un’esperienza particolarmente umiliante. Che la moglie non si curi del nostro vano mugugnare quotidiano è cosa scontata. Anzi, si potrebbe dire che il marito medio ci conti: egli sarà così libero di delirare a mezza voce senza che nessuno gli chieda di assumere la responsabilità di quel che sta dicendo. Che Alexa si volti, virtualmente, dall’altra parte è più difficile da accettare: da quella suadente voce femminile ci aspettiamo una sollecitudine da geisha (e ciò la dice lunga sull’impresentabile bagaglio psicologico maschile che ci portiamo dentro). Ricevere al contrario una negazione o, peggio, un silenzio ostinato, ci fa sentire piccoli e, una volta di più, inadeguati.

Bisogna dire che l’istinto al “fai da te” nell’uomo non è certo cosa nuova: esiste da ben prima dell’invenzione della domotica. Probabilmente risale all’alba del chiodo: da qualche parte, gli archeologi scopriranno presto o tardi una caverna con un quadro tutto storto appeso alla roccia. I nostri padri ci hanno lasciato in eredità cassette degli attrezzi colme di roba inservibile: viti spanate, pinze dalle ganasce serrate, pezzi di spago, due spine senza presa di terra, un tappeto di rondelle e di guarnizioni rinsecchite. La cassetta è il cimitero delle loro ambizioni di uomini ancora capaci di manualità: in molti casi tali ambizioni conducevano a disastri, in altri il successo finale garantiva un pieno di confidenza.

La domotica svolge lo stesso ruolo, con la differenza che non richiede alcuna abilità manuale. Si tratta solo di inserire spine, scaricare app e far partire procedure di installazione. Quando tutto, alla fine, (non) funziona, avremo avuto la fortuna di non aver messo a repentaglio neppure un pollice, ma anche la delusione di non avere in realtà realizzato alcunché con le nostre mani.

Eppure, una lampadina che si accende a voce dà una strana soddisfazione. Forse perché indurla a tale comportamento non è stato facile. Avendone inserite due in una linea interrotta da un “dimmer” (il tradizionale varialuce), ho scoperto che si creava un problema di impedenza (roba tecnica, voi non potete capire). Il che produceva una luce a tratti sfarfallante e soprattutto un ronzio continuo, simile a quello di un moscone intrappolato nell’armadietto sotto il lavandino. Per due giorni, fino a quando cioè non ho eliminato il “dimmer” sostituendolo con un normale interruttore, mia moglie ed io abbiamo stoicamente ignorato quel fastidioso rumore, io nella speranza di risolvere presto il problema, lei per non distruggere in via definitiva il mio spirito d’impresa.

Dall’esperienza ho imparato due cose: 1) mia moglie mi vuole bene, 2) non c’è come crearsi un problema e risolverlo per sentirsi meglio.

Non ho chiesto ad Alexa che cosa ne pensi e non ho intenzione di farlo: ho paura che la sua risposta sarebbe fin troppo onexta.

 

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