LA MERAVIGLIOSA FIABA VERA DI GEEL, PARADISO DEI MATTI

La leggenda narra che, in una terra d’Irlanda, nel VII secolo, un re, rimasto vedovo, si innamora della figlia, per la forte rassomiglianza con la madre. La principessa, cristiana devota, scappa per fuggire dalla follia paterna, ma viene inseguita, ritrovata nella cittadina belga di Geel e, all’ennesimo rifiuto di sposarlo, viene uccisa dal padre incestuoso.

Nel 1200, con il ritrovamento dei resti, nasce la venerazione per santa Dimpna, questo il nome della principessa, a cui vengono attribuite miracolose guarigioni di persone con problemi mentali. Ha così inizio il pellegrinaggio di famiglie con pazienti psichici. Per loro si costruisce una cappella, e successivamente un sanatorio. Dimpna da allora è considerata protettrice di questi pazienti.

Nel seguire del tempo, le famiglie di Geel accettarono di accogliere questi pazienti in cambio di piccole somme o del loro lavoro, generalmente agricolo. Queste stesse famiglie del luogo, in una tradizione secolare che dura tuttora, svilupparono competenze efficaci per la cura di queste persone, dando vita al primo esperimento di comunità terapeutica per malati mentali, nato al di fuori dei canoni della medicina tradizionale.

Di questo esempio di integrazione, che dura ben sette secoli, parla un bel libro di Renzo Villa, dedicato proprio a Geel, la città dei matti. Questa pratica sociale, prima guardata con scetticismo dalla medicina ufficiale, in quanto in aperta opposizione alla prevalente logica manicomiale, ha ricevuto interesse e crescente consenso a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il sistema delle case-famiglia di Geel, che ha raggiunto il suo culmine nel 1938, quando nella cittadina erano ospitati circa 3800 pazienti, è tuttora attivo, e inevitabilmente negli ultimi decenni è stato istituzionalizzato, con l’intervento statale che paga le rette e fissa i criteri di adeguatezza delle famiglie affidatarie. Nel 2006 il numero di pazienti è sceso a 400, di cui molti anziani, un numero persino inferiore a quello del 1855, quando fu iniziata la rilevazione.

Cosa ci insegna questa vicenda? Il primo dato è che per secoli i pazienti hanno vissuto tra la popolazione senza che ciò abbia provocato incidenti. Il secondo è che le famiglie di Geel hanno sviluppato un’attitudine all’accoglienza, tramandata tra le generazioni, ignorando lo stigma che abitualmente circonda la salute mentale. Si tratta di un modello di inclusione che andrebbe quanto meno studiato: ciò che veniva rifiutato altrove, fu accettato, integrato e alla fine ha prodotto una fusione vantaggiosa per tutti.

Se sia ripetibile toccherebbe a noi, nel resto del mondo, dimostrarlo.

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