“LA GALERA NON E’ POSTO PER DONNE”: GIUDICE UMANO O SESSISTA?

Ci sono infiniti risvolti di cui tener conto, in una tragedia come il suicidio: fattori ponderabili e imponderabili, che conducono delle persone a una scelta che, a freddo e, soprattutto, con la testa sgombra, paiono inaccettabile. Nel caso della ragazza ventisettenne che si è suicidata col gas del fornelletto nel carcere veneto di Montorio, purtroppo, di fattori imponderabili ce ne sono pochi, se non una maggiore o minore vocazione al cedimento.

Nel caso di Dona Hodo, questa vocazione rimonta alla debolezza che ti mette addosso una tossicodipendenza, anche se il suo fidanzato specifica che, da un anno, non si drogava più. Allora, perché? Il solito perché che si ripetono continuamente tutti quelli che volevano bene a una persona che abbia deciso di uccidersi. Già, perché?

In questo caso, c’è un ulteriore elemento da valutare: la lettera aperta, scritta dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Verona, Vincenzo Semeraro, che da sei anni seguiva il caso di Dona. Lasciando da parte le considerazioni sulle cause, primarie e secondarie, di questo ennesimo dramma carcerario, che sono la solitudine, l’abbandono, l’indifferenza e, talvolta, il disinteresse, sommate a fragilità psichica, danni determinati dalla droga, inquietudini personali, mi concentrerei proprio su quanto scriva Semeraro, perché mi pare meriti una riflessione.

Il giudice, evidentemente colpito da questa tragedia di cui si sente coprotagonista, scrive: “Ogni volta che una persona detenuta in carcere si toglie la vita, significa che tutto il sistema ha fallito.”. E già qui, mi sento di dissentire. Il “sistema” è una definizione di comodo: ricorda tanto la lotta al “sistema” degli anni di piombo. Il “sistema” siamo noi: la responsabilità, non solo penale, ma etica, è individuale. Se il giudice si sente in colpa per gli effetti del proprio operato, quandanche in perfetta buona fede e dichiarandosi parte del “sistema”, se ne assuma la responsabilità, anziché accusare meccanismo impersonale e astratto: altrimenti, è inutile scrivere lettere aperte.

Poi il magistrato – la faccio breve – sostiene che la povera ragazza era fragilissima e che la sua condizione era incompatibile con il carcere, da cui lui, infatti, l’aveva fatta uscire. Però ci era tornata, perché era scappata dalla comunità di affidamento. Sarebbe stata affidata al Sert, di lì a poco.

Ricapitoliamo: tu sai che una persona è incompatibile con la cella e che, infatti, sta per essere avviata a un nuovo percorso di recupero, e lasci che torni in cella? Perché non l’hai impedito, trovando una misura alternativa, fino alla nuova sistemazione? Perché la legge è dura e immutabile? In un Paese in cui i magistrati vengono sempre criticati per l’eccessiva discrezionalità? O si tratta della pachidermica ruota della burocrazia: quella della canzoncina di Vecchioni: signor giudice le stelle sono chiare?

Insomma, giudice Semeraro, la sua lettera mi sembra proprio una scorciatoia per sgravarsi la coscienza. Il che, intendiamoci, le fa onore: molti suoi colleghi la coscienza non ce l’hanno proprio.

Però, quando conclude scrivendo che le strutture detentive “non sono a misura di donna” e che “le detenute vanno approcciate in modo totalmente diverso, perché hanno un’emotività che non ha nulla a che fare con quella maschile”, dicendo chiaramente che la galera non è posto per donne, stia attento, perché afferma una cosa che va contro decenni di dottrina LGBT, contro i maestri del pensiero contemporaneo, politicamente corretto. E quella sì che è gente che non perdona.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *