di MARIO SCHIANI – In tutti gli smartphone che la tecnologia ha mandato sulla Terra c’è un cimitero. Vi giacciono le app abbandonate, scaricate in un momento di confusione o di noia, quando si crede di avere assoluta necessità di un calendario digitale che coordini tutti i nostri “progetti” (peccato che prima occorra avere almeno un progetto), oppure ci si convince che sarebbe produttivo spendere parte del tempo libero con “Plumber crack”, il gioco in cui bisogna tirare cubetti di ghiaccio virtuale nel panorama lasciato intravedere dai pantaloni di un idraulico accosciato.
Accanto a queste app, prematuramente scomparse all’affetto e alla considerazione di noi utenti, giace oggi anche Immuni, il software che avrebbe dovuto avvisarci se entravamo in contatto con una persona risultata positiva al test del Coronavirus, a suo tempo presentato alla popolazione come fondamentale e necessario, il vero salvavita in grado di tirarci fuori dal disastro.
Si registra in questi giorni l’anniversario della prima discesa nel lockdown, delle conferenze stampa in fascia protetta del premier Conte, dei balconi imbandierati, dell’“Andrà tutto bene” e, purtroppo, dell’agghiacciante sfilata dei camion militari a Bergamo. Pochi in questo frangente hanno ricordato Immuni, forse perché il cimitero delle app è davvero uno dei luoghi meno visitati del mondo digitale.
Eppure l’anno scorso, per lunghe settimane, pareva non potessimo farne a meno. Si faceva l’esempio della Corea, che proprio grazie alle ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) sembrava aver schiacciato la testa del serpente virulento. Si dibatteva, e con furore, sui limiti etici del “tracing”, come al solito debordando un poco, perché a noi piace esagerare. Chi avrebbe custodito i nostri dati? Qualcuno sosteneva di aver saputo da un cognato alla Cia che attraverso Immuni ci sarebbe stato impiantato un chip nel cervello capace di trasformarci in antenne 5G. Una cospirazione che aveva il solo difetto di procedere a rilento: tra i candidati all’inserimento risultava difficile individuarne qualcuno che, in effetti, disponesse di un cervello.
Tra dubbi legittimi e paranoie deliranti, un dato emergeva con certezza: il “tracing” era un’arma fondamentale contro il Covid-19. Addirittura, qualcuno calava la carta del patriottismo: non scaricare Immuni significava rendersi “invisibili” al tracciamento; in caso di positività, equivaleva a farsi poco meno che untori. Vergogna.
E oggi? Sarà che la nuova speranza è diventata il vaccino, nelle sue varie declinazioni farmaceutiche e nazionalistiche – c’è chi preferirebbe quello russo e chi invece non si schioda dai prodotti occidentali -, ma di Immuni non si parla o si parla pochissimo.
I numeri fotografano la situazione: su poco più di 10 milioni di download, 11 mila utenti hanno registrato la propria positività e 88 mila hanno ricevuto una notifica di esposizione. Confrontati con i dati del contagio registrati e aggiornati dal ministero della Salute, si può concludere che l’app abbia dato contro il virus un contributo minimo o irrilevante. In Germania è andata meglio, ma non troppo: la Corona-Warn-App, scaricata da 24 milioni di persone, ha raccolto 237 mila segnalazioni di positività, un numero non ancora sufficiente perché si possa parlare di significativo sostegno al contenimento del contagio.
Ai tanti fallimenti incontrati lungo la strada della pandemia – fallimenti politici, amministrativi, culturali e sociali – va dunque aggiunto quello della tecnologia. In un certo senso, potremmo argomentare che è proprio questo il fallimento più clamoroso: l’enorme tributo che paghiamo ogni giorno agli smartphone, che assorbono fette sempre crescenti della nostra attenzione e attirano enormi investimenti producendo guadagni in proporzione, non è stato ricambiato da un aiuto concreto nel momento del bisogno. La tecnologia più nuova, più rivoluzionaria, quella che ha fatto del mondo un villaggio, si è dimostrata inefficace.
Chi la difende dirà che è colpa nostra, che avremmo dovuto fidarci di più, che sarebbe stato il caso di allentare qualche sospetto legato alla privacy a favore di uno sforzo collettivo per proteggerci dal virus. In Corea, dopo tutto, sarebbe stato questo l’atteggiamento che ha pagato, mentre in Cina non si può propriamente parlare di conquista tecnologica né di volontaria cooperazione sociale: i dispositivi ICT non hanno fatto altro che entrare nello spazio già sottratto dallo Stato alla privacy dei cittadini.
Il problema sembra essere ancora una volta legato a informazione e conoscenza: occorre sviluppare una cultura tecnologica, il che equivale a dire una consapevolezza dei pregi e dei difetti di quanto la tecnica mette a nostra disposizione. In tanti, invece, passiamo dall’entusiasmo all’anatema, dal farci schiavi del digitale a proclamarne la malvagità intrinseca. In entrambi i casi un atteggiamento controproducente, che equivale a voltare le spalle alle opportunità. E voltare le spalle è sempre pericoloso: chiedere in proposito al protagonista di “Plumber crack”.