di LUCA SERAFINI – L’aeroporto di Milano Linate è il set di un film dove forse gireranno una scena tra poche ore: qualche poliziotto, un paio di addetti, saracinesche abbassate, il bar aperto soltanto all’imbarco, dove si arriva senza nemmeno bisogno di consultare il pannello, perché dopo il controllo dove parliamo brevemente di Milan-Roma con due agenti, si percorre un tunnel che ti porta al gate. Un tunnel.
Per Catania siamo una ventina. Al metal detector un paio di piccoli anziani sono in difficoltà: lui bofonchia in siciliano che è costretto a venire al Nord ogni tanto, per questioni mediche, mentre la moglie chiede di consumare il succo di frutta appena prima della perquisizione. Sono tutti gentili e pazienti con i due minuti anziani che si muovono spaesati, facendo un mucchio di domande. Non c’è fretta, non c’è problema. Non c’è nessuno.
Mi offro di accompagnarli, abbiamo lo stesso volo e siamo in largo anticipo. Camminano lenti e discutono tra loro se andare prima in bagno o a prendere un caffè, chiedendomi ogni quattro passi se “l’aereo è vicino”…? Risolvo loro i problemi conducendo lei sulla porta dei bagni femminili, poi lui al bancone del bar per quel caffè. L’omino, golf sciarpa berretto come un milanese a Cervinia, parla dei figli lontani e della sua lunga vita molto dura, mischiando smorfie di sofferenza a risate grasse che coinvolgono anche la barista, sebbene nessuno di noi due capisca esattamente cosa dica.
Ma il senso, il senso, quello è molto chiaro. Hanno solo un piccolo Nokia e lo usa la moglie, lui (Cosimo, mi pare di aver capito) non è pratico di bottoncini e impreca contro la tecnologia dicendomi di campi e pecore, formaggi e vini, poi del traffico e della città che lo hanno sconvolto e non ci si è mai abituato. Mi fa vedere le mani tozze e screpolate, allarga le braccia e traduco mentalmente la domanda per cui ha alzato il tono della voce: “Con queste mani, quale minchia di telefonino potrei usare?”.
In attesa di imbarcarci, si siedono esausti a distanza di due posti uno dall’altra. Cosimo ha uno sguardo triste: “Siamo io e lei, sempre io e lei, solo io e ‘idda’ e ora non possiamo neanche sederci vicini. Nei campi mi sono fatto tutte le malattie degli animali, mi sono spaccato le ossa, fratturato gambe e braccia. Adesso lotto pure contro ‘sta minchia di tumore, ma per colpa di un virus di m… non posso stare seduto vicino a mia moglie, non riesco a respirare con ‘sta minchia di mascherina e ieri sera abbiamo mangiato una tavoletta di cioccolato in albergo perché quando siamo usciti dall’ospedale era tutto chiuso. Ammilano, tutto chiuso! Alle 6 del pomeriggio!”.
Ho fatto fatica a stargli appresso e a tradurre, ma ho capito bene e adesso, quando sgrana gli occhi e mi fissa severo, quel che dice è tutto molto, molto comprensibile: “Per che cosa abbiamo vissuto noi? Perché qualcuno distruggesse tutto, senza rispetto per la natura, per la terra, per gli anziani? Senza rispetto per niente! Per quale minchia di cosa abbiamo vissuto noi?”.
Chiamano il volo per Catania, grazie a Dio. Non avevo risposta, infatti.