LA CITTADINANZA AL MERITO DI TIKTOK PER KHABY LAME

E così Khaby Lame sarà cittadino italiano. Lo ha assicurato il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, e se lo assicura un sottosegretario dev’essere vero. Lame è il “tiktoker” più seguito: per quelli della mia generazione una qualifica che ha lo stesso significato di un buco nel formaggio, ma per i giovani pare sia roba grossa. E lo è, senza ironia: 142,4 milioni di follower fanno di lui un personaggio di levatura mondiale.

I suoi post, avviati dopo il licenziamento da un’azienda del Torinese, avvenuto nel marzo 2020, a inizio pandemia, lo stabiliscono a pieno titolo cittadino del mondo. Ma se il mondo è la sua ostrica, come afferma un detto inglese, l’Italia lo considera ancora un ospite. Nato a Dakar nel 2000, si è trasferito qui appena un anno dopo, insieme ai genitori, e qui ha trovato il diritto di lavorare, quello (altrui) di fargli perdere il lavoro, e anche la possibilità, grazie al suo genio, di diventare un fenomeno virale. Tutto, ma non il passaporto che l’Italia, fino a oggi, non gli ha voluto concedere, non in virtù di un’antipatia personale, ma perché su queste cose, da noi ma non solo da noi, si ragiona poco in termini di logica e di umanità e molto di “principio”. O di quel che si vuol far passare per “principio”.

Cittadinanza o no, “ius soli” o “ius sanguinis”, la discussione diventa generale e astratta al punto da rarefarsi ed essere così facilmente imbottigliabile: eccola dunque pronta per il consumo nei talk show e nelle campagne elettorali. Dietro, nell’incertezza e qualche volta nel dramma, restano i casi singoli, le vite degli individui, storie in alcuni casi tragiche e in altre, come per Khaby Lame, felici.

Il giovane “tiktoker” ha dichiarato di non aver bisogno di un pezzo di carta per sentirsi italiano ma, in qualche intervista, non ha potuto fare a meno di sottolineare il paradosso. Che non è quello di essere un ragazzo di successo, oggi ricco, sponsorizzato da importanti firme dalla moda e inseguito dalle solite case editrici perché produca quanto prima un libro, e tuttavia privo di passaporto. Il paradosso è quello di essere un giovane di quelli che ci provano, sfruttano i rovesci della vita (come un licenziamento) per provare a inventarsi qualcosa, tirare avanti, magari assicurarsi un futuro, che vivono tra gli altri e con gli altri, non fanno casino, usano la testa e tuttavia non hanno un passaporto, perché altrimenti certa gente, in politica e altrove, non sa più che cosa raccontare ai suoi elettori.

I quali, detto per inciso, sono comunque molti meno dei follower di Lame: basta riferirsi ai dati delle ultime consultazioni elettorali. Se Sibilia incontra Lame, per intenderci, è il primo che dovrebbe chiedere al secondo il permesso di fare un selfie e non viceversa. E’ vero, la popolarità non è tutto, altrimenti al governo potrebbe andare chiunque riesca ad apparire in televisione il più frequentemente possibile (e questo non potrebbe mai accadere!), ma il riscontro nella massa per uno che, allo scopo di farsi intendere, ha rinunciato alle parole, oggi quasi sempre spese al netto del significato e al massimo del loro potenziale retorico, va senz’altro apprezzato e riconosciuto.

I post di Khaby sono infatti muti, o meglio parlano il linguaggio delle sue espressioni facciali mentre, con ironia, fa da contrappunto ai presuntuosi video “life hack” che, a beneficio del quarto d’ora di celebrità del loro autore, vorrebbero insegnarci trucchi fondamentali come sbucciare una banana con il coltello. Khaby smonta l’assurdo con cui la Rete ha “hackerato” i nostri cervelli e ci restituisce un poco di saggezza universale. E insieme un intelligente uso dell’ironia. Come farebbe (o vorrebbe fare) chiunque. Ogni essere umano, ogni persona, ogni cittadino. Appunto.

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