di DON ALBERTO CARRARA – Della pandemia si parla moltissimo, ovviamente, e si cerca di capirne le conseguenze a breve e a lungo termine. Tra le conseguenze a lungo termine ce ne sono alcune che riguardano la Chiesa. Una soprattutto che mi pare ne riassuma in sé diverse altre. In sintesi si potrebbe enunciarla così: la pandemia sta costringendo la Chiesa all’irrilevanza.
La Chiesa conta sempre meno. Il processo, per la verità, non è iniziato con il Covid, ma il Covid ha dato una prodigiosa accelerata. Non solo perché si sono chiuse le chiese e la frequenza ai riti religiosi è calata ma, molto più radicalmente, perché la lontananza dalla Chiesa ha creato l’abitudine a farne a meno e, anche quando la Chiesa “serve”, basta accendere la televisione. Perfino la parrocchia trasmette in streaming. Di conseguenza, la comunità cristiana è sempre meno comunità anche solo perché i legami che la tengono insieme sono più virtuali e, quindi, di fatto, legano di meno.
Di fronte a questo “dato”, è chiaro che il problema che si pone alla Chiesa non è tanto come fare a contare di più – cosa che, più il tempo passa, e più appare irrealizzabile -, ma come fare ad adattarsi a contare di meno. È un problema di testa o, se si preferisce trattandosi della Chiesa, di anima. Perché, in effetti, la Chiesa non esiste per essere rilevante, ma diventa rilevante perché esiste. Ed esiste perché è stata incaricata di parlare a tutti, con entusiasmo, di una bella notizia, inattesa, sorprendente (come noto, Evangelo, deriva da Euangelion, che vuol dire, appunto, “bella notizia”).
La bella notizia si potrebbe enunciare così: “Ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete – … voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. … Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. …”.
È quello che san Pietro dice, all’indomani della Pentecoste, a Gerusalemme. Si trova negli Atti degli Apostoli, capitolo 2. Si può girarlo, rigirarlo, ridirlo, abbellirlo, approfondirlo… Ma un credente, se vuole continuare a credere, deve sempre tornare a quella notizia lì.
Poi, partendo da quella notizia, la Chiesa si è data da fare, e molto, per gli uomini. Ma lo ha fatto soltanto perché ha saputo che Dio stesso si è dato da fare per gli uomini, tanto da diventare uomo anche lui e da morire, appunto, su una croce. Quindi la Chiesa della pandemia si vede costretta, dai fatti stessi, a tornare a monte, a quell’annuncio e a chiedersi che cosa serve perché la bella notizia passi, anche oggi, durante la pandemia, e dopo, quando la pandemia sarà finita.
Con un rischio, però. Questo: che la Chiesa non si rassegni a contare meno, per tornare a essere sempre più se stessa, sempre più fedele a quel messaggio da cui lei stessa nasce e sul quale fonda la sua testimonianza. Che non accetti di essere sottoposta a un processo di rigenerazione, soprattutto perché quel processo non l’ha voluto lei. E allora si vedono preti e laici che si aggrappano, quasi disperatamente, alla vecchia Chiesa di un tempo, convinti di salvare la Chiesa salvando il latino, esibendo pizzi, sottane e i fronzoli, ribadendo a voce alta il ruolo insostituibile del prete…
In sintesi: siccome la Chiesa si vede di meno, deve fare di tutto per apparire di più.
Forse questa linea vincerà. Ma anche in quel caso, soprattutto in quel caso, bisognerà chiedersi se la Chiesa dei fronzoli e delle sottane è ancora quella voluta dall’uomo del Golgota.