di PAOLO CARUSO (agronomo) – La filiera del grano duro e della pasta, ovvero l’alimento più presente nelle tavole degli italiani, è riuscita (durante l’emergenza Covid 19) a rispondere all’inaspettato picco di domanda, assicurando, senza particolari battute d’arresto, le forniture nei canali distributivi. Ma questa continuità di rifornimenti potrebbe essere messa a rischio dal calo delle scorte di grano duro a livello mondiale e dal conseguente, inevitabile, rialzo dei prezzi che all’inizio del lockdown erano già mediamente superiori del 25% rispetto all’anno precedente, con un trend destinato a proseguire.
Se a questa situazione sommiamo che, secondo una ricerca Nielsen per Coldiretti, nel 2020 l’Italia incrementerà del 59% le importazioni di grano dal Canada, ovvero il paese da cui acquistiamo gran parte del grano estero malgrado i pericoli fitosanitari che presenta, siamo di fronte a un contesto che pone grandi interrogativi sulla sicurezza e sovranità alimentare del nostro Paese.
Il precario stato della cerealicoltura nostrana è il risultato di una politica agricola assente, che ha delegato negli ultimi decenni alle importazioni da stati esteri il soddisfacimento delle nostre esigenze alimentari. A causa di questa pandemia, alcuni stati come la Russia o altre Repubbliche ex sovietiche hanno deciso in via cautelativa di bloccare le esportazioni di materie prime come il grano, decisione che complicherà maggiormente la già difficile situazione. I tentativi per porre rimedio a queste criticità sono stati affidati alla buona volontà di singoli che hanno cercato di immaginare un futuro diverso per la nostra agricoltura, meno dipendente dalle importazioni e più legato alle proprie risorse.
Uno di questi esempi è Giuseppe Li Rosi, figlio e nipote di contadini ed allevatori, erede e continuatore delle imprese agricole di famiglia, che volle laurearsi in Lingue straniere pensando di acquisire gli strumenti necessari per fuggire dalla sua Raddusa, limite ultimo della provincia di Catania, nell’entroterra siculo, luogo elettivo e culla del grano in Europa. Ma il suo progetto di fuga fu bloccato da alcune vicende personali e, soprattutto… dalla scoperta di uno scritto di Van Gogh!
“Cos’altro si può fare, pensando a tutte le cose la cui ragione non si comprende, se non perdere lo sguardo sui campi di grano? La loro storia è la nostra, perché noi che viviamo di pane, non siamo forse grano in larga parte?”
Giuseppe, in controtendenza con i sistemi agricoli “moderni”, circa 15 anni fa ha deciso di coltivare grano in biologico e ha decisamente virato in direzione dei grani siciliani autoctoni, ovvero popolazioni di frumento meno produttive, ma dalle straordinarie qualità organolettiche e dal minore impatto ambientale, grazie alla loro capacità di fare a meno dell’ausilio di prodotti di sintesi.
Per portare avanti il suo progetto imprenditoriale e di vita, Li Rosi ha dovuto lottare anche contro una burocrazia inconcepibile che considerava illegale la coltivazione di questi frumenti, perché in contrasto con la modernità e lo strapotere delle ditte sementiere. Per evitare di coltivarli clandestinamente, quasi che fossero sostanze stupefacenti, e per dar voce alle istanze degli agricoltori che producono eccellenze partendo dallo straordinario patrimonio di agrobiodiversità siciliano, Giuseppe, insieme ad un altro manipolo di “pazzi illuminati”, ha fondato “Simenza”, un’associazione che attualmente raggruppa circa 200 produttori e trasformatori isolani e che rappresenta un vero baluardo per la tutela e valorizzazione della biodiversità siciliana.
Oggi i grani antichi hanno assunto una piena dignità legale, vengono coltivati su circa diecimila ettari in Sicilia, alimentano filiere locali che impegnano agricoltori, trasformatori e distributori, costituendo una positiva novità nel panorama agricolo nostrano e rappresentano una speranza ormai consolidata nel panorama della cerealicoltura isolana.
Giuseppe Li Rosi, oltre a coltivare e custodire i grani antichi, grazie alla sua capacità di innovare e all’incontro con il prof. Ceccarelli, è stato tra i primi agricoltori a introdurre i miscugli di frumento, antitetici alle linee pure, perfettamente adatti a un’agricoltura a basso input, una vera e propria esplosione di biodiversità. I miscugli di grano rappresentano per Giuseppe la sintesi della società in cui sogna di vivere, una moltitudine di individui, diversi tra loro, che sopperiscono alle difficoltà, grazie alle loro differenti qualità, ma tutti protesi verso un obiettivo comune.
Questa visione quasi utopica non allontana l’obiettivo di generare reddito dalla biodiversità e dall’agricoltura biologica: i miscugli di frumento sono richiestissimi dai migliori professionisti della ristorazione italiana e grazie a questo notevole interesse vengono coltivati da una rete di agricoltori facenti capo a “Simenza” e venduti su contratto a prezzi prefissati a un mulino del nord Italia che per primo ha creduto e sposato il progetto. La dignità della remunerazione e la possibilità di programmare il lavoro dei contadini sono tra i principi ispiratori di Giuseppe Li Rosi e della sua associazione.
Li Rosi rappresenta un esempio concreto della possibilità di costruire un progetto economicamente e ambientalmente sostenibile, essendosi ispirato a quella che lui stesso definisce “retro-innovazione”, ovvero un nuovo modo di intendere l’agricoltura, utilizzando innovazione e ricerca, ma che trae la linfa vitale dalle pratiche e dalle conoscenze contadine.