di MARIO SCHIANI – E così ce l’ha fatta: il virus ha superato anche il confine insuperabile, quello del 38° parallelo Nord, la cortina militarizzata che divide le due Coree. Lo ha fatto come gli si conviene: nell’assoluta indifferenza che lo contraddistingue per i confini umani, per il filo spinato e le torrette che le nazioni stendono ed ergono nella convinzione di poter dividere in più mondi un mondo che si ostina a rimanere unico e indivisibile.
Ma forse, questa volta, il Covid ci ha messo un po’ più di malizia. Il primo caso di positività in Corea del Nord sembra intervenire con perfetto tempismo a smentire le dichiarazioni del leader supremo Kim Jong-un rilasciate appena pochi giorni fa: “Abbiamo sconfitto il virus”. Un successo attribuito “alla lungimirante leadership del Partito”. Poiché tutti i presenti volevano tornare a casa per cena, nessuno lo ha contraddetto e quindi vuol dire che quel che ha detto il Capo è vero. O meglio, lo era: il virus, notoriamente decadente e controrivoluzionario, ha voluto dimostrare che le cose potevano andare diversamente.
L’incursione del virus, Kim non l’ha presa bene: ha convocato una riunione straordinaria del Politburo nel corso della quale ha definito la situazione “critica” e ha annunciato l’introduzione dello stato di “massima emergenza”. Come possa essere uno stato di “massima emergenza” in un Paese che vive già sulle punte temendo ogni minuto un nuovo capriccio del Leader non riusciamo a immaginarlo. Ecco: sarà rilassante più o meno come un pomeriggio passato a disinnescare bombe nucleari.
Il caso di positività è stato localizzato a Kaesong, vicino al confine con il Sud, e l’intera città è stata messa immediatamente in lockdown. Se prima gli abitanti di Kaesong non godevano di una gran libertà di movimento, adesso ti saluto: gli albergatori dell’Adriatico che hanno ricevuto prenotazioni da laggiù si mettano il cuore in pace.
Nel commentare l’incidente, il Leader non ha resistito e l’ha buttata in politica: a portare il virus in Corea del Nord, ha detto, nientemeno che un “disertore”, ovvero “un fuggiasco andato al Sud tre anni fa e rientrato superando illegalmente la linea di demarcazione”. Una circostanza che dal suo punto di vista non fa una piega: a contrarre il morbo non poteva certo essere un leale cittadino della Repubblica Democratica. Doveva invece trattarsi di un individuo già malato nello spirito, incline al tradimento e contaminato dalla peste libertaria. Perché costui, dopo tre anni passati a sguazzare nella pozzanghera capitalista, abbia sentito il bisogno di tornare al Nord, il Capo non lo spiega. Magari aveva nostalgia delle parate militari e dei sobri monumenti che Pyongyang ha eretto a Kim junior e Kim senior.
Fatto sta che, positivo al virus, con una città in lockdown intorno a sé e con il Leader del suo Paese che lo ha definito “disertore”, il “paziente 0” coreano non ci sembra messo bene. C’è il rischio che presto diventi il “paziente -1”: dovesse scampare al virus potrebbe ritrovarsi davanti a un plotone di esecuzione. Kim infatti pare convinto che la forma di distanziamento sociale più efficace sia la morte.