di TONY DAMASCELLI – Kim Jong Un ha pianto. Ha pianto il suo popolo, riunito nella piazza oceanica di Pyongyang, donne e uomini e militari con il volto rigato di lacrime come il loro grande duce, costretto a togliersi gli occhiali per asciugare quella commozione improvvisa, così improvvisa che un secondo dopo si è messo ad applaudire se stesso, per quelle parole poetiche, tipo “alto come il cielo e profondo come il mare”, roba che nemmeno Al Bano avrebbe pensato e scritto.
In quella stessa arena, il singhiozzante aveva annunciato al popolo: ”Noi abbiamo bisogno di produrre testate nucleari e missili balistici, e accelerare il loro dispiegamento. Gli Stati Uniti devono sapere che il pulsante per le armi nucleari è sul mio tavolo. Questo non è un ricatto, ma la realtà”.
Belle parole, confortanti e rassicuranti per il futuro in nord Corea e nel resto del mondo, est, ovest, sud. Ma il pianto del presidente ha retto secondi dieci, perché mentre zampillava, quegli stessi occhi umidi sono diventati lucidi di gioia, stava infatti sfilando un carro poco carnevalesco che trasportava, su undici assi, nel senso di pneumatici, un missile balistico intercontinentale da ventisei metri, qualcosa meno del famoso calcio di punizione di Roberto Carlos alla Francia.
Kim Jong Un più che commosso è commovente, era ieri quando decise di confiscare tutti i cani da passeggio, segnali volgari della decadenza occidentale. In molti, non soltanto tra i suoi rarissimi avversari, tutti nascosti nei canneti coreani, sostengono che i quadrupedi, considerata la crisi nelle cambuse, per colpa del virus, siano finiti nei vari luoghi di ristoro.
I Kimiologi riferiscono che il pianto del duce non sia una novità storica, altre lacrime vennero versate durante il funerale del padre e, di recente, dinanzi ai drammatici dati dell’economia del Paese. In verità, fonti coreane rivelano che, osservando con attenzione le immagini, Kim Jong Un sarebbe crollato in pianto quando si è accorto del taglio di capelli che il barbiere gli aveva arrangiato.