IN QUESTO PD PERSINO ZINGA E’ UN GIGANTE

di MARIO SCHIANI – Con le dimissioni da segretario del Pd, Nicola Zingaretti in un colpo ha fatto due (potenzialmente tre) mosse rivoluzionarie: 1) ha dato le dimissioni, 2) ha confermato le dimissioni, 3) potrebbe effettivamente non ritirare le dimissioni. Con le prime due è già entrato nell’inaudito, con la terza aspirerebbe ai libri di Storia.

“Segretario ero” disse il fratello del commissario Montalbano e sbatté la porta. Lasciando dietro di sé l’istantanea di un Partito a nudo, di una sala macchine piena di gente indaffarata a tirare leve, ruotare manovelle, litigare per i posti di comando e anche per quelli di sottoposto. Il tutto per mantenere in azione un meccanismo che non produce nulla – se non interessi di bottega (oscura), apparenze di politica e levigate vacuità da social – perché nulla può produrre, essendo privo del pezzo più importante: la cinghia di trasmissione con il Paese.

Con tutto questo, il Pd resta il partito più organico, quello in cui si manifesta ancora un principio democratico interno, in cui qualcuno conosce, per sentito dire, come funziona e cosa fa, storicamente, un partito. È perfino l’organismo in cui si è provato, con qualche goffaggine, a mettere in campo la verifica delle “primarie”. Ma se la struttura resta, mancante risulta tutto quello che dovrebbe reggere: idee, programmi e relazioni con il mondo (meglio: con le persone) che vorrebbe rappresentare.

In questa bolla staccata da tutto, sospinta da ogni refolo cangiante, diventano essenziali questioni che, viste da quaggiù, francamente appaiono futili e incomprensibili. Chi occupa la tale poltrona? E, soprattutto, chi non dovrà mai e poi mai occuparla? E l’altro incarico a chi lo diamo? Non esiste più l’elenco del telefono, altrimenti qualcuno avrebbe potuto scambiarlo per la lista dei possibili sottosegretari.

Perfino una questione serissima come quella dell’eguaglianza tra uomini e donne diventa una barzelletta. Neanche per un secondo il Paese ha creduto che la polemica sulla mancanza di donne ministro Pd nel governo Draghi fosse rivolta ad affrontare direttamente il problema delle pari opportunità: tutti hanno pensato all’ennesimo regolamento di conti interno o, nel migliore dei casi, al rimpianto per una mancata operazione di marketing, di cosmesi elettorale.

Sembra di poter dire che, in Italia, nei partiti a organizzazione democratica lo sport più praticato sia quello di fare sempre e comunque la guerra al capo e di sottoporgli questioni infinitesimali, essenziali solo al mantenimento di insensati equilibri interni. Non stupisce dunque che il fratello del commissario si sia rotto i “cabbasisi”. Negli altri partiti, quelli verticistici, a leadership personale, l’hobby dilagante è il bacio al posteriore del capo: operazione da ripetersi più volte al giorno fino a quando il capo medesimo non mostri segni di cedimento. Allora si dovrà trovare un passaggio sul primo carro vincente in arrivo.

Con questo andazzo, il partito che doveva fare le riforme sociali non le fa, quello che parlava di federalismo è diventato nazionalista, quello della rivoluzione liberale non dà notizie di sé, manco un “whatsapp”. Restano gli “altri”, quelli della “pancia”, quelli che “la gente sono stanca” e Putin sì che ha le palle e Trump almeno non bombardava nessuno (ma lasciava comunque morire la gente sotto le bombe).

La mossa Zingaretti ha ribaltato la storia dell’imperatore e dei suoi vestiti nuovi: nudo, qualche volta, non è il Re, ma i suoi lacchè. Purtroppo in questo modo, e di questi tempi, non si va da nessuna parte. Come direbbe Catarella, collega del fratello commissario, “dottori, vossia vuole babbiare”.

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