di JOHNNY RONCALLI – Le tragedie paiono incredibili solo fino a quando accadono veramente. Di fronte all’incredibile, deflagra lo stupore, la sorpresa, la frase di rito “chi poteva immaginare che…”.
Tragedie domestiche che coinvolgono bambini non sono poi così infrequenti, ma colpisce in modo speciale leggere di un bambino autistico di 8 anni che muore soffocato da una pila di panni, di vestiti che cadono da un armadio che ha aperto, per giocare, presumibilmente, o chissà.
L’impossibile – quello che ci sembra impossibile – è accaduto a Cozzo, in Lomellina, provincia di Pavia, presso una casa famiglia dove il piccolo era ospite con la madre. E’ accaduto dietro l’angolo, come accade nell’appartamento del secondo piano del nostro condominio. Accade a qualcuno che abbiamo incrociato, anche sfiorato, o addirittura col quale abbiamo parlato. Non accade agli antipodi, in qualche sperduto villaggio o in qualche esotica località dai presunti connotati di arretratezza.
Resta l’incredulità, la sorpresa, lo sconcerto, ma chi ha incontrato l’autismo sulla propria strada, chi ha trascorso anche solo qualche frammento della propria vita a contatto con l’autismo, sa che non vi è nulla di incredibile nell’autismo, sa che il principio di incredulità deve essere sospeso. Tutto è possibile, perché per le persone autistiche comprendere questo maledetto, complicatissimo mondo, è altrettanto incredibilmente difficile.
Non conosciamo con esattezza le dinamiche dell’accaduto, le scopriremo, forse, ma vien da pensare alla difficoltà nel valutare le conseguenze delle proprie azioni, alla difficoltà di scovare una soluzione, una fuga quando accade qualcosa di imprevisto. Difficoltà amplificata dalla paura, dal panico, dal peso e dal senso di soffocamento. Ma chi può dire qualcosa di sensato a riguardo?
Un bambino autistico è spesso incapace di chiedere aiuto, è possibile che non parli, è possibile che in ogni momento si ritrovi in situazioni pericolose o intricate senza poi avere armi per poter evadere dalla ragnatela nella quale è finito. E anche qualora sia in grado di chiedere aiuto, non è scontato che lo sappia fare in qualsiasi frangente, anzi, talvolta a ogni singolo frangente va attribuita la possibilità di chiedere aiuto.
Queste e infinite altre inquietudini prendono forma ogni giorno nell’appartamento di fronte a noi, sul nostro stesso pianerottolo, in quella famiglia che conosciamo ma della quale ignoriamo la reale quotidiana spericolata montagna russa che è ogni loro giornata. Quella famiglia che non può perdere di vista nemmeno per un momento quel bambino, così bello, vivace, curioso eppure così in difficoltà col nostro complicatissimo mondo fatto di oggetti, persone, parole, gesti, movimenti talmente poco chiari e coerenti.
Allora occorre sorveglianza, quella sorveglianza inevitabile e vigliacca che nel tempo induce nel bambino paradossale insicurezza e a volte costante ricerca dell’approvazione dell’adulto. Quella sorveglianza sfiancante, ininterrotta, che ininterrotta non può mai essere perché anche i superpoteri delle mamme e dei papà delle persone autistiche hanno bisogno di essere ricaricati ogni tanto.
Accade ogni giorno vicino a noi, anche in periodo di Covid, ancor più in periodo di Covid, con l’incubo di un contagio, peggio, un ricovero che sprofonderebbe l’autistico in un tenebroso maelstrom dove qualsisasi senso e comprensione sarebbero negati e nel quale anche le famiglie impotenti verrebbero risucchiate, senza alcuna possibilità di contatto.
Non che questo importi granché, l’autismo non ha bandiere politiche, non porta PIL, è solo una rottura di scatole quando qualcuno viene a bussare per ricordare che esiste, una rottura di scatole a interrompere la pace che regna nelle stanze dei bottoni.
La pace che mai più quella mamma potrà avere. Nemmeno i superpoteri hanno potuto salvare suo figlio.