IL TRAPPER DEL NULLA

Quel presuntuoso della prima fila dava del nano al compagno di banco, il piccolo A., che sarebbe diventato uno dei miei migliori amici e il più grande tra i calciatori dilettanti che abbia mai conosciuto. Poi professionista affermato, eccellente marito e padre di famiglia, è rimasto basso per tutta la vita, mentre non so che fine abbia fatto quel bambino che lo sfotteva all’asilo, lentiggini e capelli arancioni, sempre seguito da un codazzo di piccoli adepti come uno strascico vivente. Io mi limitavo a difendere A., sottraendolo ai tormenti dell’arancione che pensavo semplicemente essere un cretino in cerca di consensi, un bambino crudele perché non si accorgeva di esserlo, intento com’era ad affermare la sua boria meschina così apprezzata dalla maestra e dagli altri bambini e bambine.

Poi ho incontrato nelle mie letture “I ragazzi della via Paal”, il capolavoro di Molnar in cui due bande di liceali si sfidano in una vera e propria guerra di confine, alla periferia di Budapest sul finire dell’800. E’ un romanzo nato per ragazzi e diventato best-seller da adulti, contenendo la disperata denuncia di uno spazio sempre più piccolo – nelle grandi città che moltiplicavano i palazzi – per i giochi dei giovani. Non ho mai smesso di piangere alla morte del piccolo Nemecsek, ogni volta che l’ho riletto. C’era un significato in quella lotta infantile e in quella violenza, c’era una storia sociale in quel libro struggente. Come nella vorticosa ascesa criminale dei ragazzini malavitosi di “C’era una volta in America”, smaniosi di emulare gli adulti partendo dai quartieri poveri di Manhattan per inseguire denaro e gloria con l’unica possibilità offerta dalle armi, dalla prepotenza. Trame che hanno un senso.

Ora ascolti quei brevi, incalzanti servizi in tv sulle baby gang e non capisci. Allora leggi le inchieste su quotidiani e settimanali, più approfonditi e dettagliati, ma continui a far fatica. A Riccione il sabato sera la Polizia si apposta nei viali circostanti, nel piazzale della stazione e persino sui binari. Gli agenti sanno che da settimane minorenni o appena ventenni tempestano social e chat con foto e messaggi inequivocabili: “Peschiera è stata solo un assaggio, ci becchiamo a Riccione”.

Sulla sponda veronese del Garda, il 2 giugno erano arrivate centinaia di adolescenti per un raduno trap battezzato “L’Africa a Peschiera”: risse, danneggiamenti, atti teppistici e molestie sessuali esattamente come un anno fa proprio a Riccione, dove gli inquirenti sospettano che una trentina dei protagonisti fossero gli stessi di oggi. Negli zainetti hanno alcolici comprati a pochi euro nei market e vari tipi di droghe. In testa la voglia di devastare, spaventare, rovinare. Le sottotracce di divertimento hanno connotati satanici, rispetto a quelle innocenti – quasi bigotte al confronto – del pallone, delle ragazzine, della discoteca, della chitarra in spiaggia.

Negli ultimi giorni a Milano i Carabinieri hanno sventrato e forse azzerato la faida permanente tra Mohamed Lamine Saida (Simba La Rue) e Mohamed Amine Amagour (Baby Touché). Due noti trapper e i rispettivi nomi d’arte. L’inquietante sottofondo della musica trap è il collante tra Peschiera, Riccione, Milano e chissà quanti altri luoghi non solo italiani: non a caso i magistrati sostengono che il fenomeno si ispiri ai tumulti francesi delle banlieue, le periferie. La trap nacque a cavallo tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio, avendo un legame molto stretto con lo spaccio e il consumo di droghe e alcolici. Non era un genere vero e proprio, indicando in origine soltanto i luoghi (le “trap house” appunto), differenziandosi dal rap essendo cantato e non parlato e avendo testi sempre cupi, minacciosi, legati alla povertà, al disagio, fino alla criminalità e alla droga.

Sta di fatto che il modus operandi della gang rivali di Simba e Baby appaiono come una tragica evoluzione delle violenze della via Paal: rapine, pugni, calci, fendenti, rapimenti. Con la variabile moderna dei video postati in rete e delle automobili, Mercedes classe A con targhe svizzere, mentre Boka e Feri Ats (i capi banda della via Paal) usavano legni e mani, senza preoccuparsi a loro volta dell’efferatezza delle loro azioni. Altra variabile è che nel romanzo di Molnar sono praticamente assenti le donne, le ragazzine, mentre nella faida milanese smembrata dalle forze dell’ordine è comparsa Sara Ben Salha, 20 anni, diplomata e iscritta all’università di legge. Fidanzata di un membro di una delle due gang, aveva il ruolo di sedurre e poi tradire quelli della gang rivale, consegnandoli nelle mani violente della sua attraverso veri e propri agguati. Sara viene descritta come abilissima persino nei depistaggi, specializzata in testimonianze fasulle rese ai militari: l’hanno smascherata grazie a quegli stessi auricolari nascosti e ai microfoni che utilizzava per incastrare gli ignari spasimanti.

Quel bambino dai capelli arancioni della mia infanzia non c’entra niente con la frustrazione e il confino delle periferie, incarnando solo la natura propria dei capibranco che si manifesta dall’asilo al marciapiede, dal bar al quartiere, fino alla famiglia e in ufficio. Intorno, la vita e le miserie di una società dove le favelas circondano le città, sfiorano soltanto il nostro ritmo frenetico che non si accorge della loro esistenza e fa fatica a comprenderne regole sgangherate e meccanismi perversi.

Possiamo indignarci, rattristarci e avere paura, ma non possiamo sorprenderci: offriamo poche chances ai nostri giovani. Tra di loro qualcuno, probabilmente la maggioranza, continua a inseguire i propri sogni e le proprie aspirazioni con abnegazione e tenacia, altri si perdono nell’oblio. Una parte invece anela sfuggire alle umiliazioni degli stenti e sfoga la sua rabbia, cercando visibilità, potere, ricchezza, senza preoccuparsi che sia tutto effimero, non potendo imparare niente dalla storia perché nessuno gliela insegna.

Quando cessò la faida tra i ragazzi della via Paal che difendevano i loro spicchi di terra, su quei prati costruirono edifici cancellando tutto. Quando crebbero Robert De Niro e James Wood, pagarono con il carcere, l’isolamento e la morte la loro carriera criminale.

I finali sono tutti scritti, a Milano come a Peschiera come a Riccione. A Budapest come a New York. Le sole variabili sono il numero delle vittime lasciate sul campo e la quantità del giovane sangue che sarà ancora versato, schizzando le giacche e le camicie degli adulti.

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