IL SUICIDIO ITALIANO PARTE DAL RIFIUTO DEL LICEO

Se l’Italia è unita sul liceo del Made in Italy – un’anomalia strapaesana che non decolla a nessuna latitudine –, nelle iscrizioni alle scuole superiori si registra l’ennesima spaccatura tra Nord e Sud, e non è detto che a trarne vantaggio sia il Settentrione. Nel grande calderone delle percentuali, spiccano due dati. Il primo: il liceo classico ottiene buoni risultati nelle regioni centromeridionali, avvicinando la doppia cifra in Calabria, Lazio e Sicilia, mentre in Lombardia e in Veneto l’indirizzo supera di poco il 3%, percentuale che in Emilia-Romagna non riesce nemmeno a raggiungere. Altro dato eloquente: il liceo scientifico resta quasi ovunque la scuola più gettonata, ma se nelle regioni centromeridionali lo scientifico ‘tradizionale’ ha in media un numero di iscritti decisamente superiore all’indirizzo delle ‘scienze applicate’ (senza latino), in Lombardia i dati sono praticamente coincidenti (in Piemonte e in Veneto è già avvenuto il sorpasso), e in alcune scuole bergamasche l’indirizzo delle ‘scienze applicate’ ha quadruplicato gli iscritti al tradizionale.

Possiamo elaborare le più sofisticate riflessioni, ma la morale è chiara: nelle zone più popolose e produttive del Paese si sta sempre più diffondendo la convinzione che la scuola debba formare lavoratori ed esecutori, allenare più le mani che le menti. Dalle aree che si reputano più progredite si sta dimenticando l’unica grande lezione che l’Italia, nel corso della storia, sia riuscita a dare al mondo, l’idea cioè che l’educazione dovrebbe servire a formare l’uomo e il cittadino, tanto più in epoche in cui le derive anti-umane e anti-umanistiche sono sempre più violente.

Il trend delle iscrizioni conferma, poi, quello che i più avveduti avevano intuito da tempo: la demoltiplicazione degli indirizzi liceali – dall’Europeo al coreutico, dall’economico-sociale allo sportivo, dal Made in Italy alle scienze applicate –, pensata per dare slancio ai licei, sta paradossalmente affossando proprio i licei tradizionali, sempre più percepiti dalla massa come istituti poco al passo con i tempi, legati a un mondo superato. Ma chi vive nel mondo della scuola sa bene che mai come in questi tempi, in cui si fa sempre più urgente un approccio critico e consapevole al mondo, sarebbe fondamentale una razionalizzazione del sistema, riportando il numero dei licei a quattro – classico, scientifico, linguistico, scienze umane –, accomunati dalla presenza del latino: perché, checché ne dicano i detrattori di sinistra e di destra, sono la lingua e la cultura latina l’unico terreno in cui l’Europa sia stata davvero unita (ricordarlo a chi si riempie la bocca di integrazione europea) e l’unico elemento realmente identitario della storia italiana (ricordarlo a chi si riempie la bocca di sovranismo).

Molti si erano illusi che, con l’arrivo al Ministero dell’Istruzione di un ordinario di Diritto romano, ci sarebbero state parole appassionate e convincenti sull’importanza degli studi umanistici, sull’utilità dell’impostazione liceale come baluardo contro l’abbrutimento culturale e l’invasione delle tecnologie digitali, mentre purtroppo i discorsi pubblici di Giuseppe Valditara sono sempre rivolti a rinforzare l’idea della scuola come avviamento al mondo delle professioni (nonché conditi da un inquietante compiacimento per la sperimentazione dei licei con l’Intelligenza Artificiale).

Il grande Giovanni Sartori, profeta inascoltato, lo aveva previsto: la democrazia avrebbe iniziato a declinare quando al demo-potere non avrebbe più fatto seguito un demo-sapere, cioè una cultura, una coscienza etica ed estetica, un pensiero critico diffusi e trasversali, basati su tanta letteratura, tanta storia, tanta filosofia. Ma il problema è sempre lo stesso: è ragionevole pensare che sia consapevole di tutto questo una classe dirigente che elegge a proprio guru un apprendista stregone d’Oltreoceano dipendente dalla ketamina?

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