IL SEGNALE PIU’ ANGOSCIANTE: NESSUNO VUOLE PIU’ FARE IL MAESTRO

Le cose umane, si sa, sono soggette a clamorosi alti e bassi: nella Prussia guglielmina, fare il militare era l’attività più chic e la casta militare era ai vertici della società. Nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, se facevi il soldato di mestiere, poco mancava che ti sputassero addosso.

La società cambia: noi cambiamo. E l’appeal dei vari lavori subisce queste medesime variazioni. Se, quando De Amicis diede alle stampe il libro “Cuore”, quella del maestro era una professione poco retribuita, ma piuttosto distinta, sibbene sottoposta agli uzzoli della pubblica amministrazione, oggi, epoca in cui della distinzione frega poco o nulla, ma, in compenso, della retribuzione importa anche troppo, a fare il maestro non ci vuole andare nessuno.

Non lo dico io: secondo il Bollettino Excelsior di Unioncamere è di difficile reperimento il 57,5% dei maestri di scuola primaria e pre-primaria. Insomma, non si trovano insegnanti per i nostri bambini. Troppe sottocategorie, troppi lacciuoli, troppa formazione inutile e pochi, pochissimi denari. Se la scuola è il laboratorio delle inutili castronerie, dai banchi a rotelle alla tassonomia di Bloom, la scuola primaria, che fino a qualche tempo fa era il comparto che si salvava dal disastro, è diventata la piazza d’armi dei pedagoghi un tanto al chilo, che hanno trovato ormai saturo il resto della pubblica istruzione: e, allora, sotto! Astrusità didattiche, commissioni e comitati e uno stipendio da fame, hanno messo in fuga gli aspiranti maestri, che, evidentemente, hanno mangiato la foglia.

Perché, dovete saperlo, i giovani sono scemi fino a un certo punto: mica sono come la generazione di chi scrive, che si è fatta turlupinare da semiologi dulcamara e sindacalisti vari, bevendosi la favoletta della scuola del Duemila e ritrovandosi più povera, più ignorante e più socialmente ininfluente che ai tempi della legge Casati. Giusto e inevitabile, perciò, che non si trovino missionari disposti a sacrificarsi per quarant’anni sull’altare di questa idea balzana di educazione, per pochi euro al mese.

Dunque, che si fa? In che mani finiranno i nostri figli, se nessuno se ne vuole occupare? Beh, miei cari, qui le cose sono a un punto di rottura: o si mette mano a una radicale revisione della scuola, tanto dal punto di vista didattico quanto da quello retributivo, oppure chiudiamo bottega e seguiamo alla lettera la provocazione di Papini, che le scuole proponeva di chiuderle. Tertium non datur.

Immaginatevi l’Italia del, diciamo a spanne, 2050: un Paese senza istruzione e senza studenti, in cui le classi saranno formate al 90% da immigrati, ognuno con la sua lingua e con la sua tradizione. Se è questa la società inclusiva di cui ci hanno riempito la testa per decenni, sappiate che essa assomiglia maledettamente alla Torre di Babele e, probabilmente, andrà a finire allo stesso modo. E classi così, senza insegnanti degni di questo nome, asservite soltanto alle leggi della correttezza politica e del disordine mentale, produrranno, a loro volta, schiere di disagiati, inadeguati, inetti, incapaci, che andranno ad accrescere le fila degli insoddisfatti cronici. Un gatto che insegue la propria coda, se rendo l’idea.

Sarebbe, perciò, caso impellente occuparsi del problema: subito, con energia e lungimiranza. Non tanto per i segnali preoccupanti che riguardano la penuria di maestri, quanto per quelli che si riferiscono, più in generale, alla catastrofe educativa in corso. Ma parlare di rapidità, energia e lungimiranza in Italia e massime in riferimento alla scuola non è scienza: è fantascienza.

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