di GIORGIO GANDOLA – «Bisogna scannerizzare gli asintomatici». «Perché non testano il tocilizumab? Ma va, lei non sa che benefici avremmo con la clorochina, signora mia».
L’Italia nella bufera dell’epidemia si divide come al solito in tre parti: quelli che soffrono nel dramma, quelli che lo combattono in silenzio e quelli che ne parlano. Poiché i primi due settori della società in trincea sono giustamente e doverosamente narrati tutti i giorni, qui vogliamo accendere l’abat jour sul terzo, malinconico e saccente, che occupa il tinello, i social e talvolta anche la Tv.
L’italiano medio pontifica di suo su tutto, ma questa volta è riuscito nell’impresa di diventare un virologo asintomatico. Un immunologo da Cepu. Un Burioni senza cotonatura.
I casalinghi di Voghera sopravvissuti al loro creatore Alberto Arbasino sono tutti qui, a darci consigli su Whatsapp, a sfinirci di ammonimenti su Facebook, a postare tutorial (ovviamente virali) su come lavarsi le mani senza bagnare i polsini delle camicie button down, quelle che ormai non mette più neanche Walter Veltroni. E il pudore di pronunciare la parola tocilizumab non li ferma, hanno il bugiardino sul comodino.
Così, mentre il premier Conte ci ricorda gli stili di vita (anche lui sociologo bipolare), l’italiano medio riscopre la sua vocazione sul pianeta depresso: quella del tuttologo di professione. Colui che non ha alcun problema nell’indossare i panni degli altri senza temere l’arresto per furto di vestiti. Non è la prima volta.
Nel 1994 durante la bufera di Tangentopoli eravamo tutti magistrati. Fu un periodo eroico nel quale un terzo del Paese si sentiva Antonio Di Pietro, pensando che il “che ci azzecca” fosse una formula da codice di procedura penale, un terzo Paolo Brosio sui binari del tram in attesa del cazziatone di Emilio Fede. L’ultimo 33% temeva di essere arrestato. Allora un’Italia che mai avrebbe immaginato che i gradi di giudizio erano addirittura tre imparò la parola d’ordine: avviso di garanzia. Nella Milano da bere chi non ne esibiva uno (neanche fosse un Matisse) non era nessuno.
Poi il vento si placò, la polvere depositata ci fece comprendere le curve di quella stagione controversa e per un po’ i casalinghi di Voghera si dedicarono al bricolage e al jogging.
Nel 2011 ripartì la smagliatura. Crollo dell’economia, debiti sovrani, aziende fallite. Il fenomeno diventò presto sociale, l’Europa non faceva sconti e quello stesso italiano un po’ invecchiato si ritrovò davanti a un’altra parola magica, che sapeva di aperitivo ma evocava l’apocalisse finanziaria: lo spread.
Così, non riuscendo a scegliere fra lo spread e lo spritz, il tornitore Brambilla un giorno si svegliò economista. Trenta milioni di economisti, tutti a discettare su Twitter, tutti con un Phd alla Bocconi e tutti a rompere i santissimi a John Maynard Keynes con quel «a medio termine saremo tutti morti».
Nel nostro piccolo eravamo orgogliosi, guardando Mario Monti che parlava piano, di sapere che un loden è un cappotto. Non percepivamo bene il significato di “tagli lineari”, roba da boscaioli. L’avremmo capito a nostre spese. Dettagli.
Non c’è epoca senza una crisi di sistema. E non c’è crisi di sistema che l’italiano non attraversi travestendosi da protagonista. L’abbiamo imparato all’università del Bar Sport, il campo di allenamento preferito, dove abbiamo insegnato a Bearzot e a Lippi a vincere i mondiali. E dove Conte (l’altro) è un genio quando Lukaku segna ma è un pirla quando Lukaku sbaglia.
Comunque date retta a me, che fino all’altroieri credevo che il Mit di Boston fosse una squadra di basket: gli asintomatici vanno scannerizzati.