IL RAP DEI MAFIOSI

di GIORGIO GANDOLA – «C’ho in mano un ferro pronto». Se fosse quello della zia Wallie in procinto di stirare il colletto difficile che aspetta il suo turno sul trespolo a fiori, la faccenda sarebbe originale. Saremmo dentro il situazionismo americano, la provincia profonda trumpiana di Raymond Carver, “desperate housewife” con bigodino e sigaretta pendula. Invece il ferro è una pistola e la frase rappresenta il momento più alto del rap del boss, la canzone che i ragazzi del clan mafioso di Latina hanno dedicato al loro capo, arrestato una decina di giorni fa con altri 18 gentiluomini nell’inchiesta Reset.

Il brano è un inno al clan dei Travali, di origine nomade, che per anni ha spadroneggiato in territorio pontino e secondo la squadra mobile avrebbe gestito i soliti affari di famiglia: spaccio capillare, estorsioni a imprenditori e professionisti. Tutti dentro tranne i pargoli ventenni, che hanno deciso di sollevare il morale degli arrestati dedicando loro un imperdibile rap che sta spopolando su YouTube, con video e montaggio professionale, nel quale si inneggia alla violenza, all’omertà, ai soldi facili. Una sfida con il passamontagna allo Stato, che da parte sua si sta chiedendo – non a voce troppo alta per non irritare i difensori a comando di qualsivoglia diritto o pretesa – se non sia il caso di oscurarlo.

Nell’attesa, il brano rap avrebbe tutte le carte in regola per andare a Sanremo. Abbiamo ascoltato di peggio. Il testo è certamente di rottura, quindi adatto a far fremere di commossa eccitazione la sala stampa del festival. Ecco un paio di strofe da premio letterario. «C’ho un amico/ e di sicuro no/ non è pentito». «Siamo ragazzi popolari/ pensiamo agli affari», rappata da un tipo poco raccomandabile che punta le dita a forma di P38 verso la telecamera. E poi: «Ti credi Pablo/ ma non sei nessuno/ al massimo vendi fumo». Dai versi tardo-gozzaniani traspare un certo senso del possesso riguardo al territorio: «Se sei in zona mia/faccio bang bang bang». E infine il ritornello che spacca: «C’ho in mano il fero pronto/ siamo cresciuti nella fame/ tra coltelli e lame».

Tutto ciò è completato da un atto sessuale mimato con una ragazza seminuda e da esibita solidarietà agli arrestati con le loro foto in primo piano. È una variante digitale delle sceneggiate durante le retate a Ottaviano, a Tor Bella Monaca, quando i parenti si stracciano le vesti e si oppongono alla polizia che impacchetta i mariuoli di famiglia. È una versione webmaster dell’inchino, il gesto che i clan facevano (fanno fanno) durante i funerali dei boss, con il parroco che davanti a una consistente busta dirige il mesto corteo sotto il balcone del capo bastone. Su YouTube nessun paramento nero, solo passamontagna. E una rassicurazione ai parenti in galera: «Zio Bula esce in fretta/ l’ho scritto sui muri della cameretta». Che tenero.

I membri del gruppo si definiscono «i nuovi messia» e il loro brano sta spopolando a Latina sugli smartphone. Sta passando per un tocco d’arte visiva, un diversivo originale alla noia del chiuso per pandemia. Anche dai report dei giornaloni sembra che tutto questo sia folclore, della serie so’ ragazzi. E che nella zona franca della rete tutto possa scorrere senza creare equivoci. Invece è l’esatto contrario.

L’istigazione alla violenza in musica sarà pure più melodica, ma non è meno pericolosa di una minaccia. Anzi è più subdola, ha il lasciapassare delle note e del giovanilismo, sdogana “il fero” e tutto il resto. Sul pianeta digitale tutto è più semplice. I mafiosi si fanno pubblicità sui social e noi ci preoccupiamo per i banner delle dentiere che ci compaiono durante una ricerca.

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