IL POLLAIO COVID NON POTEVA CHE FINIRE CON LA SCORTA AL VIROLOGO

di GIORGIO GANDOLA – Il cerchio si chiude, siamo alle minacce di morte. Nel girone infernale della pandemia in un Paese isterico come l’Italia ecco il gran finale: mentre 40 milioni di italiani entrano in zona bianca, al professor Matteo Bassetti, direttore della clinica Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, è stata assegnata la scorta. Da tempo sotto attacco delle “frange più estreme no-vax” (neanche si trattasse delle Brigate Rosse) dentro le leggiadre cloache social, il virologo è stato messo sotto protezione dalla questura.

La colpa di Bassetti è evidentemente grave: essersi speso apertamente per la campagna vaccinale, aver difeso le scelte scientifiche anti-pandemia dagli attacchi di panico della parte più fragile e diffidente del Paese.

Certi post su Facebook fanno venire i brividi. “Il veleno iniettalo tu, la tua famiglia e tutta la tua razza”, “Veterinario spacciato per dottore, cammina tranquillo, mi raccomando, non ti girare mai indietro. Buona passeggiata!”, “Qualcuno mi faccia sapere se ha un bazooka o una mitragliatrice, ci penso io. Non ho paura, lo faccio volentieri e senza soldi”. È curioso che il social network gestito da sinceri democratici capaci di espellere un presidente degli Stati Uniti non sia in grado di silenziare qualche sciacallo in libera uscita.

Bassetti aggiunge: “Sto subendo minacce di morte già da molti mesi. L’intolleranza, espressa con ogni tipo di epiteto violento verso chi la pensa diversamente o cerca di dare il proprio contributo scientifico, non può essere tollerata né giustificata”. Li ha contati: “Millesettecento messaggi di odio in due ore contro di me e la mia famiglia. Mi dicono che sono un nazista, che mi spetta un’altra Norimberga, mi vogliono appendere a testa in giù”.

La notizia provoca a cascata alcune riflessioni sulle nevrosi che ci accompagnano all’uscita (si spera definitiva) dall’emergenza sanitaria. E con le quali saremo costretti a convivere a lungo.

La prima riguarda la totale diffidenza nei confronti dell’altro; avremmo dovuto stringerci come i giocatori della Danimarca attorno a Christian Eriksen, invece procediamo divisi su tutto. Cantavamo dai terrazzi, suonavamo l’inno sui tetti di piazza Navona, giocavamo a tennis fra un balcone e l’altro di Genova: come caratteristi di film di Alberto Sordi siamo i più bravi nel reagire d’istinto in solitudine e i peggiori quando serve pensare in sintonia con senso civico e rispetto del prossimo.

È la conferma che non siamo un popolo, ma una collezione. E in questa teca di individualismi, in questi anni di ribellioni, vaffa fasulli dal palco ed emergenze reali, abbiamo maturato il convincimento che davvero “uno vale uno” anche quando parla, quando pensa, quando scrive. Ormai è in atto una Corrida permanente senza Corrado, l’ora del dilettante si è dilatata a dismisura. E la competenza è solo un fastidio superabile con una scrollata di spalle. “In fondo mio cugino infermiere è più credibile di un luminare”. Chi non è d’accordo merita di morire. Molto bene.

Senza tornare sulle paturnie no-vax, è fondamentale aggiungere che tutti abbiamo fatto del nostro peggio per informare in modo corretto i cittadini sull’emergenza sanitaria più invasiva degli ultimi cento anni e sulla campagna vaccinale più vasta di sempre. Male i media, che dai tempi dei pronto soccorso di Alzano e Nembro hanno imbastito una pietosa gara alla ricerca dei colpevoli, come se la diffusione di un micidiale virus planetario dipendesse dalla decisione di un direttore dell’Asl. Tutti con il dito puntato, tutti a politicizzare il Covid per scopi elettorali, tutti a spiare il vicino e a scatenare la rabbia collettiva contro il passante con il cane al guinzaglio. Tristezza infinita.

Uno sbandamento mediatico senza controllo, la ricerca dell’audience invece che dell’informazione pacata, controllata, in grado di creare quel “consenso informato” di fronte a persone inermi. Dalla “Strage nascosta” nelle Rsa milanesi – così nascosta che un anno dopo non l’ha ancora trovata nessuno – alla guerra preventiva fra regioni, tutto si è snodato come dentro un brutto film catastrofico.

Ora la serenità è irrecuperabile e quei danni si riverberano sull’isteria della gente davanti ai problemi dei vaccini. Rifiutati, bloccati, recuperati, frenati, rilanciati nonostante effetti collaterali in percentuali infinitesimali. Ma come diceva quello, un albero che cade fa più rumore (sui giornali e in Tv, nella società malata del citizen journalism) di una foresta che cresce.

Male i media, ancora peggio gli specialisti del ramo. Quindi i virologi, quindi il Bassetti medesimo. Li abbiamo visti tutti in passerella mentre sgomitavano per un collegamento in più, un’inquadratura di profilo in più, un’ultima parola in più nel confronto quotidiano. La chiamano “divulgazione”. I professori non hanno niente da divulgare, anche perché non lo sanno fare. Dovrebbero rilasciare interviste a “Science”, non alla Squilla di Sorrento. Abbiamo cambiato canale per la disperazione e loro (i Galli, i Crisanti, i Burioni, le Viola e avanti con la formazione tipo) erano sempre lì. A discettare di virus, di politica, di chiusure, di allarmi, di economia, di smartworking, perfino dell’Inter. A un certo punto abbiamo avuto un incubo: vederli anche dentro le previsioni del tempo o al posto dei cuochi che magnificano le quaglie ripiene.

Al culmine di questo sabba autoreferenziale le minacce di morte non possono essere definite una causa, ma una conseguenza quasi naturale. Il secondo tempo di un’oscena partita sull’isola dei famosi e dei reietti nella quale ci siamo ritrovati a vivere e a sbranarci in allegria. I no vax erano quattro gatti. Siamo riusciti a farli diventare otto, rumorosi, petulanti, con la verità in tasca. E fra loro cominciano ad esserci persone semplicemente smarrite che fino a un mese fa sarebbero corse negli hub vaccinali, in scienza e coscienza. Istituzioni, media, virologi: ancora un po’ di teatrino a reti unificate, e gli scettici diventeranno un esercito. Per colpa loro, ma soprattutto per colpa nostra.

 

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