IL PERICOLO DELLA MADRE COCCODRILLO

di MICAELA UCCHIELLI (psicologa e psicoterapeuta) – Questo tempo pandemico, difficile e incerto, è un tempo che domanda la cura. Cure mediche, cura del proprio corpo, da proteggere, e di quello degli altri, degli affetti più fragili,
da tenere a distanza.
La distanza è un nome della prevenzione e al tempo stesso della cura. Ci si cura lontani e isolati.
Gli adulti si domandano come prendersi, al meglio, cura dei bambini, come aiutarli ad affrontare questa esperienza a loro totalmente sconosciuta, come tenerli occupati, durante le lunghe giornate in cui, soprattutto i più piccoli, non sono impegnati con le videolezioni scolastiche.
E i genitori si domandano come occupare quel posto, da spettatore che osserva, talvolta impotente, quei piccoli corpi agitati che necessitano di movimento, di aria, di spazi aperti e soprattutto di altri bambini.
Siamo attenti, impegnati e preoccupati.
Soprattutto le madri, perchè la cura, la psicoanalisi ce lo insegna, è la declinazione materna dell’amore per il proprio figlio.
Ma che tempo è questo per le madri?
La dimensione della cura è femminile e necessita di essere particolare, cura non anonima ma sempre e solo di un nome, di quel nome, di quel bambino unico e si oppone alla cura medica fatta di numeri, della conta dei corpi infettati, malati, immuni.
In un tempo in cui la cura e con essa il suo fallimento sono in primo piano, come cura una madre?
E come la fallisce?
Molte madri sono tornate ad esercitare la loro funzione a tempo pieno.
La delega alla scuola è sospesa e si dilatano le ore da dedicare ai figli, da affiancare spesso nei momenti di apprendimento e di studio.
Alla de-maternalizzazione, compito primario dell’istituzione scolastica, si sostituisce un ritorno alla madre, come funzione esclusiva dell’educazione e della cura.
Dall’essere madre al fare la madre, chiamata a un nuovo incontro col proprio figlio.
“C’è piu tempo per i propri affetti”, echeggia la voce del buon senso collettivo.
Ne siamo sicuri? Siamo sicuri davvero che il tempo imposto, forzatamente, dalla quarantena sia un buon tempo?
Tempo che, in alcuni casi, rischia di trasformarsi nel sequestro autorizzato del proprio figlio. E in quello, altrettanto autorizzato, del corpo della madre da parte del bambino.
La coppia madre bambino vive nella reciproca illusione di completarsi vicendevolmente.
Illusione che, se certamente salvifica nei primi tempi di vita del piccolo umano, rischia di diventare pericolosa quando non interviene un elemento terzo che separi i due, la cui tendenza sarebbe quella di restare in quell’abbraccio, senza parole, del primo incontro. Incontro senza distanza.
Questo elemento separatore è rappresentato dal padre, il cui compito primario è indirizzare altrove il desiderio materno. Una parte di esso almeno.
Ora, il padre per la psicoanalisi è una funzione. Che l’istituzione scolastica, il mondo del lavoro, una passione della madre e tutto ciò che la anima al di là del proprio figlio, possono svolgere altrettanto bene, quando questa funzione, per le ragioni più varie, risulta carente.
Si potrebbe dire allora che ciò che salva tutti è proprio quell’altrove, di cui la libertà non è che uno dei nomi. Libertà anche di non essere sempre, costantemente, nel tempo della cura.
Senza un possibile altrove che giustifichi il tempo sottratto al proprio figlio dal lavoro, dall’essere immerse e rapite dagli impegni della vita, non è forse questo un tempo rischioso?
Non tutte le donne sono in effetti e per fortuna “freudiane”; non tutte, cioè, sono risolte, completamente, nel miraggio di pienezza della maternità. Che ne è di loro in questo tempo?
La donna non-tutta madre, non-tutta cura, salva il proprio figlio, liberandolo dalle fauci della bocca di coccodrillo spalancata, metafora con cui Lacan indicava il desiderio, potenzialmente cannibalico, di ogni madre.
La scuola, il lavoro, il tempo extra famigliare, il marito, l’amante, un hobby, sono solo alcuni dei molti nomi della barra che impedisce che la bocca di coccodrillo della madre si chiuda sul bambino, tornando a farne il proprio frutto. Trasformando la cura in eccesso di cura.
La salvezza per un figlio, per ogni figlio, è che la madre resti, dunque, anche donna. Che sia capace di abitare quell’altrove. Che resti alla giusta distanza.
Quell’altrove non è, necessariamente, fuori dalle mura di casa, essendo in tutto ciò che esclude, benevolmente e beneficamente, il bambino non facendone il centro esclusivo del suo mondo.
Ma occorre confrontarsi con la difficoltà di farlo esistere, in questo tempo in cui la distanza è domandata fuori e annullata dentro le mura domestiche.
Forse molte madri riusciranno a mantenersi in quel salvifico altrove, anche nel tempo recluso della pandemia, saranno funambole capaci di inventarsi qualcosa con nulla, raffinata capacità femminile, ma la psicoanalisi si occupa di quel che non funziona. E dà voce alla possibilità di mettere in parola quell’insoddisfazione, materna, che altro non è che un nome della donna. Della donna che sopravvive, alla pandemia e alla madre.

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