IL PENOSO INGANNO DEL VOTO TEEN-AGER

di MARCO CIMMINO – Mia mamma ha cento anni: cento tondi tondi. Diciamo che ne ha viste di cose: guerre, paci, crisi, boom, proteste, restaurazioni e così via. Certo, non è un’esperta di pedagogia e non si è mai occupata di statistiche, però ha letto due volte tutti e sette i volumi della “Recherche”, senza poi denunciare sintomi particolari. Insomma, mia mamma è anzianetta, ha qualche acciacco, ma ragiona piuttosto lucidamente e vanta una discreta esperienza in cose della vita.

Alla domanda se i giovani d’oggi siano più o meno maturi di quelli del passato, lei, che è diplomatica nel dna, ha risposto senza esitare: non c’è paragone! Quelli di oggi, da soli, non saprebbero neppure allacciarsi le scarpe, esistenzialmente parlando: magari, poi, saranno bravissimi a muovere il pollice su di uno schermo, ma, quanto a capacità di valutazione, sono dei bambini troppo cresciuti. E questo ve lo potrebbe confermare qualunque insegnante.

Eppure, la tendenza generale è quella di anticiparne l’ingresso nella vita civile: farne dei precocissimi elettori. Quando i giovani affrontavano prove significative e dovevano maturare alla svelta, la maggiore età era posta a ventuno anni: oggi, che vengono trattati come porcellane di Meissen o come decerebrati, a seconda dei casi, diventano maggiorenni a diciotto.

E’ una linea di pensiero precisa: non a caso, negli USA, ovvero nel paese più disastrato pedagogicamente, gli adolescenti hanno la patente a sedici anni. In Italia, ora, si è deciso di far votare i diciottenni anche per il Senato: autentico viatico per abbassare a sedici l’età del voto per la Camera.

Come sempre, la risposta risiede in una domanda: cui prodest? A chi conviene portare alle urne un esercito di lattonzoli del tutto impreparati, non si dice a scelte politiche, ma neppure a scelte tout court? Giovanotti tirati su a Sferaebbasta e TikTok.

Semplice: a chi spera di intercettarne il voto. A chi ha un disperato bisogno di quei voti, pena la scomparsa politica. Il bene comune diventa del tutto secondario, quando ci sono di mezzo le poltrone: certuni farebbero votare anche i paracarri, se fossero certi che votassero per loro.

Rammento un discorsetto fatto da un noto politico un paio di decenni orsono: il furbone postulava l’ingresso in Italia di qualche milione di Africani, che, in segno di gratitudine verso i loro mentori, avrebbero votato massicciamente per chi li aveva fatti arrivare a Bengodi. Ovviamente, di problematiche sociali, potere contrattuale, disagio, al noto politico nulla importava. Così come oggi nulla importa, a chi vorrebbe spalancare le cabine elettorali ai sedicenni, del fatto che costoro non riescano neppure a esprimere i propri rappresentanti di classe: figuriamoci un parlamentare o un partito. Però, siccome le statistiche dicono che gli implumi, debitamente manipolati, voterebbero in un certo modo, il loro voto diventa, per magia, una battaglia di civiltà.

Nel Medioevo, ci si sposava a dodici anni e, spesso, una ragazza, a quattordici, si trovava vedova: accadeva perché dei sentimenti o della maturazione della gente non importava a nessuno. Importava fare accordi, stipulare paci o alleanze commerciali, offrendo la giovanetta vergine come merce di scambio: spesso a un marito di decenni più vecchio.

Oggi, per fortuna, questo non accade più. In compenso, però, con la questione del voto, si fa, più o meno, la stessa cosa: un mercato delle vacche sulla pelle dei più indifesi culturalmente. E la cosa peggiore è che questa patente idiozia, questa cinica e disastrosa operazione, viene, come al solito, spacciata per progresso. Quando è soltanto calcolo. Per di più, sbagliato.

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