IL NO VAX RINCHIUSO NEL SUO PALEOLITICO SOSTENIBILE

La sindrome del ghetto, la mitologia del “cul de sac”, è viva e lotta insieme a noi. C’è qualcosa di perverso e di ammaliante nei sentimenti dell’assediato: secoli di letteratura e d’arte hanno creato e pietrificato un’immagine eroica e psicologicamente molto efficace, che ancora oggi gode di ottima salute.

In effetti, fin dagli albori della nostra civiltà, aedi e citaredi hanno cantato le gesta del manipolo di prodi che, accerchiato senza speranza, resiste fino all’ultimo respiro, contro la marea dilagante delle forze del male. Talmente tanti ne sono gli esempi, dalle Termopili ad Alamo, da Roncisvalle a Giarabub, che farne l’elenco diverrebbe lungo e intollerabile al lettore. Basti, perciò dire che sentirsi stretti d’assedio, che si tratti di Montsegur o della Commune parigina, riempie il cuore di coraggio e l’animo d’orgoglio.

Oggi, sembrerebbe che il sentimento della santa resistenza a oltranza si sia trasferito nella legione dei No-Vax: verrebbe da ridere, paragonando il popolo anti-vaccino a Leonida o a Rolando, tuttavia è così. Il meccanismo è lo stesso e analogo l’atteggiamento: colonnello non voglio pane, dammi piombo pel mio moschetto!

A questo va avvitandosi anche un ulteriore fenomeno, del tutto peculiare: chiamiamolo ritorno alla società silvopastorale. Il ghetto, in certi casi, si restringe fino alle dimensioni di un monolocale e con lui le relazioni sociali, economiche, amicali, che rendono la nostra vita così complessa e poliedrica: novelli Hamish, quaccheri del terzo millennio. I no-vax integralisti, spesso, si ritirano nel loro guscio di lumaca, come spiegano apertamente anche in un reportage di “Repubblica”: non escono, non consumano, riscoprono l’orticultura di sussistenza. In altre parole, si adagiano in un nuovo alto Medioevo. Meglio vivere nel bosco che frequentare un centro vaccinale. Il che comporta uno stile di vita diverso: a metà tra il partigiano nascosto nella foresta e il figlio dei fiori che si coltiva le patate sul terrazzo. Chiamiamolo Paleolitico sostenibile.

Come io la pensi sulle vaccinazioni l’ho già scritto in chiaro latino, e non è mestiere tornarci su. La cosa che, però, mi colpisce, è come l’avversione per il vaccino anti-covid sia diventata una specie di atto di fede: e, per conseguenza, che i suoi sostenitori si siano autoproclamati martiri. Nel senso originario di testimoni e di vittime.

Certamente, in questa radicalizzazione risiede l’idea che vaccinarsi sia solo il primo passo verso una completa abdicazione dai propri diritti elementari: ne deriva che il vaccino possa essere una specie di passe-partout di una non meglio precisata camarilla mondiale, che vuole renderci schiavi. Anzi, robot.

Però, lasciatemelo dire, il mio annoso mestiere di storico e, un pochino, di epistemologo, mi fa vedere la pertinacia dei vari Giorgianni, Schilirò, Salimbeni, disposti ad affrontare sospensioni, censure, tagli di stipendio, più come carbonari che vanno a morire credendo di venir ricordati in eterno, che come combattenti contro Big Pharma: insomma, ci vedo più la sindrome del ghetto che una logica strategica.

Come dire che, in qualsivoglia muro contro muro, c’è sempre qualcuno che impugna la bandiera e salta nella trincea nemica, facendosi impallinare. Il punto è: per che cosa? Qual è l’incrollabile fede che porta questi novelli spartiati ad affrontare le infinite schiere del re dei re? Mi verrebbe da dire che costoro sono, piuttosto, il prodotto della non-fede definitiva: di un’epoca in cui, a furia di vedere crollare le certezze tradizionali, non si crede più in nulla. Né in una religione, né in un’ideologia: si ha fede soltanto nel sospetto e nel dubbio.

In un Dio, insomma, che tiri solo a fregarci: che si chiami Big Pharma o che si chiami Trilaterale. Scrissi, un tempo, di società della colpa e società della vergogna: ecco, oggi mi sento di dire che viviamo nella società dell’incredulità e della sfiducia. E, in questo deserto che hanno chiamato pace, inventarsi un assedio e fingersi assediati è, probabilmente, l’ultimo modo di sentirsi vivi. Ma è una malattia, intendiamoci, tale quale al covid.

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