Mucche a bassa emissione di gas serra: sembra una trovata di marketing per piazzare un placebo suggestivo all’inquinamento sempre più grave del pianeta. Invece, leggiamo che è nata Hilda con la fecondazione artificiale, la vitellina scozzese capostipite della nuova razza di mucche che ridurrà le proprie emissioni di metano.
Quando pensiamo alle emissioni ci vengono subito in mente i mezzi di trasporto, i sistemi di ricaldamento, i cicli produttivi, non sono certo in cima alla lista le espulsioni naturali dei bovini, attraverso il respiro e da tutto ciò che succede invece nel “retrofit”. Cerco di semplificare il complicato ragionamento scientifico: succede che nello stomaco di questi quadrupedi ci siano dei batteri che producono metano durante la ruminazione, mentre in alcuni tipi questi batteri siano meno attivi, ergo, generano meno metano. Ecco che allora la selezione della specie si orienta su questi profili meno inquinanti e via di fecondazioni in vitro per creare intere nuove razze.
Diavoli di scozzesi, oltre all’whisky, ai kilt e alle cornamuse, si dedicano anima e corpo alle razze animali. Vi ricordate la pecora Dolly, il primo mammifero ad essere clonato nel lontano 1996: sono sempre loro i responsabili di questi esperimenti innovativi. Ironia della sorte o forse fonte di ispirazione, per chi conosce bene la Scozia, ricordo che il piatto nazionale lassù è l’haggis, un insaccato che si presenta come un budello riempito con interiora di pecora (cuore, polmone, fegato), macinate insieme a cipolla, grasso di rognone, farina d’avena, sale e spezie, mescolati con brodo. Insomma, da quelle parti di bestie se ne intendono, sia fuori che dentro.
Torniamo ai fatti. Hilda rappresenta idealmente un universo di ben 1.5 miliardi di capi, in aumento, che sono responsabili insieme ad altri fattori del 14.5% delle emissioni globali di gas serra derivanti dall’allevamento. Non poco, per cui il tentativo è piuttosto lodevole, se non che già qualcuno storce il naso perché sostiene che il metano si degradi in poco più di 11 anni e non sia quindi così nocivo come la vera CO2 che, invece, resta in circolo molto più a lungo. Il vero problema del metano è al momento della sua estrazione piuttosto che alla sua produzione via bovini, continuano i detrattori, ma è opinione diffusa tra gli scienziati che sia comunque una buona strada da battere.
Il (lodevole) sforzo nella ricerca è testimoniato da cinquant’anni impiegati nello studio, sappiamo che la fecondazione in vitro è abbastanza low cost perché finanziata con “sole” 335 mila sterline, ma certamente gli investimenti dovrebbe insistere più sugli inquinatori primari che su quelli secondari. Manca, come sempre, qualcuno che coordini le attività e renda più efficace l’azione sul campo.
A meno che i furbacchioni abbiano pensato in segreto a un’estensione della platea a basse emissioni: si potrebbero coinvolgere quindi non solo i bovini ma, spingendo all’estremo la ricerca, magari anche altri svariati miliardi di esemplari di diverse razze e specie animali, con il tripudio delle fecondazioni in vitro o, peggio, frutto di clonazioni.
Uno scenario abbastanza agghiacciante, che disegnerebbe un futuro distopico dal quale dovremmo tenere le distanze, in cui a qualcuno potrebbe venire la tentazione di pensare anche agli 8 miliardi di noi umani, che per definizione consumiamo ossigeno e contemporaneamente emettiamo, oh sì se emettiamo, forse poco gas serra, ma un sacco di altre cose dannose sì.