IL FANTOZZI ITALIANO DI SUCCESSO ALL’ESTERO

di GHERARDO MAGRI – Nel mondo multietnico delle aziende globali c’è una specie di cui vorrei parlare: l’italiano che fa carriera nelle sedi delle grandi società.

La mia esperienza quarantennale mi permette di tracciarne un profilo abbastanza preciso e impietoso allo stesso tempo; chiedo venia in anticipo per eventuali generalizzazioni, perché la casistica prevede ovviamente variazioni sul tema.

Lo dico subito per sgombrare il campo da fraintendimenti: il manager italiano che ha scalato i gradini degli organigramma internazionali (tutti meno uno, quello più importante) e che siede negli uffici “corporate” dei temuti “headquarter” (la cosiddetta casamadre) è spesso l’alleato peggiore dell’Italia e del suo collega che la rappresenta. Quasi mai è qualcosa di personale, ma quando le traiettorie dei due connazionali s’incrociano volano scintille, per poi divergere irrimediabilmente senza più trovare veri punti d’incontro.

La vocazione del primo è chiara fin dall’inizio: fare esperienze all’estero perché i confini tricolori gli stanno stretti. Questi emigrati sono abili nel parlare più lingue, coltivano l’ambizione di entrare nel palazzo del potere, sviluppando doti di adattamento oltre misura. Il paese d’origine è citato giusto come uno dei passaggi del curriculum, ma via via perde il connotato caratteristico della sua personalità. Un apolide un po’ forzato e costruito per l’occasione.

Il secondo è, invece, nato-cresciuto-sbocciato interamente sul suolo italiano, interprete autentico dei problemi e delle possibilità del Belpaese. Lavorando in una multinazionale anche lui è abile in contesti internazionali, ma non è il suo pane quotidiano, perché gli piace di più risolvere i problemi a casa sua. Ha la capacità di gestire una complessità molto ampia e soffre un po’ la gerarchia burocratica della sede centrale. Un manager nostrano prestato a cause oltreconfine.

All’inizio del rapporto, i due italiani sembrano fare team in modo spontaneo: la lingua in comune aiuta, l’approccio al business sembra simile e l’idea di fare una piccola “pizza connection” è intrigante in grandi gruppi molto eterogenei. Ma bastano pochi incontri ufficiali per verificare sul campo se ci si può fidare l’uno dell’altro, il confronto ha il sapore di una sentenza definitiva. Di solito il “nostrano” è più aperto nel cercare soluzioni comuni, “l’espatriato” è più freddo e assorbe ogni piccolo dettaglio dell’apertura del collega per valutare i pro e contro. La collaborazione va avanti anche bene, ma prima o poi viene l’inevitabile momento delle scelte.

Lo scena classica è il meeting formale con il top management board dove si deve decidere la strategia finale. Ed è in questo preciso momento che ognuno gioca il proprio vero ruolo, fuori dai rituali aziendali. La mia statistica personale registra, purtroppo, una caduta verticale nella fiducia del diversamente italiano: lui sfoggia sorprendentemente una sicumera sui dati mai vista prima, in cui “si evince che la situazione italiana non è delle più rosee e, se confrontata con le medie degli altri mercati, insomma bisognerebbe essere prudenti e forse posticipare i progetti a tempi migliori”. Sa di bocciatura, imprevista e non concordata. E’ evidente come questo dia il via a una feroce bagarre dialettica tra i due, senza esclusione di colpi (professionali), con un crescendo tutto italiano, pieno di passione e di valutazioni sfaccettate che evidenziano sì i rischi, ma soprattutto i vantaggi. Il bello è che spesso l’espatriato viene messo in minoranza, travolto dal realismo e dalla capacità di convinzione dal manager locale. Che però ha dovuto digrignare i denti per portare a casa il risultato.

Da quel momento in poi la relazione finisce e ci saranno solo freddi contatti di lavoro. L’italiano d’esportazione viene bollato per sempre come un Giuda dal team italiano e non ho mai visto riabilitazioni serie. Mi sono chiesto più volte il perché.

E’ un insieme di diverse ragioni, tra cui due che lo marchiano a vita come un italiano geneticamente modificato.

La prima è l’utilizzo perverso della nostra storica capacità di essere flessibili e tirare fuori il meglio in ogni occasione: nel suo caso è l’adattarsi totalmente a standard europei o mondiali che tendono a una democratica mediocrità, rinunciando a migliorarla, magari contestandola. Assorbiti senza speranza dal giogo della carriera, questi camaleonti opportunisti rinunciano a elevare il livello.

La seconda è il prendere le distanze dalle proprie origini italiane, come se macchiassero il pedigree faticosamente conquistato. Un atteggiamento da pavidi, da provinciali, un ripudio che non fa onore a nessuno, nemmeno ai capi che lui vuole ingraziarsi.

Ecco che allora io da parte mia preferisco a questo italiano arrivato i tedeschi testoni ma leali, gli inglesi algidi ma professionali, i francesi spocchiosi ma abili, gli spagnoli logorroici ma propositivi, gli americani esibizionisti ma innovativi. Almeno so chi ho di fronte e so come comportarmi, senza avere mai grandi delusioni professionali né tantomeno personali.

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