IL FAIR-PLAY DEL PALLONE HA FIGLI E FIGLIASTRI

L’unico ad aver alzato la voce è stato Josè Mourinho, allenatore della Roma che è uno dei quattro club italiani sanzionati: “Il fairplay finanziario (FFP) è un meccanismo onesto, ma non funziona benissimo. Protegge squadre che sono potentissime e che non lo applicano in maniera virtuosa”.

Tutti gli altri hanno incartato e portato a casa. Il Milan ha invece emesso un comunicato: “La decisione del Club Financial Control Body della UEFA testimonia la validità della visione strategica che guida l’operato del nostro Club. Proseguiremo con fiducia nel percorso virtuoso verso la sostenibilità finanziaria, in linea con le indicazioni del FFP, impegnandoci con disciplina e costanza per raggiungere il perfetto equilibrio e la sinergia tra risultati sportivi e finanziari: un obiettivo che tutto il mondo del calcio dovrebbe continuare a ricercare”.

Punti di vista. Come lo sono quelli empirici dell’Uefa, che nei suoi conteggi non solo non ha tenuto conto di cambi di proprietà, risultati a medio-lungo termine, situazione attuale, ma ha fatto di ogni erba di bilancio un fascio e ha sparacchiato qua e là.

Il comunicato Uefa recitava: “La Prima Camera del CFCB ha concluso accordi transattivi con otto club che hanno concordato un totale di 172 milioni di euro in contributi finanziari, obiettivi specifici e restrizioni sportive condizionate e incondizionate nei prossimi anni. È stato rilevato che AC Milan, AS Monaco, AS Roma, Beşiktaş JK, FC Internazionale Milano, Juventus, Olympique de Marseille e Paris Saint-Germain non hanno rispettato il requisito del pareggio di bilancio”.

L’entità delle sanzioni è la cosa che desta le maggiori perplessità. Un esempio: il Milan che in poco più di quattro anni ha rimesso a posto una situazione allo sfascio, pagherà 2 milioni di ammenda, mentre il Paris St.Germain che grazie alla proprietà araba spende e spande a rotta di collo, avvalendosi spesso della sponsorizzazione di aziende e società che appartengono alla proprietà medesima del club (il trucco più vecchio del mondo) ne pagherà “soltanto” 10. Nel calderone ci sono altri club, tra i quali il Manchester City che si muove disinvoltamente come quello francese, essendo a sua volta di proprietà araba (sono persino parenti, i due sceicchi).

Per dirla alla Mourinho, il principio è onesto, la pratica lo è un po’ meno, tra miopia e tolleranza nei confronti dei ricchi, simpatie e insofferenze dei parrucconi svizzeri che guidano l’Uefa: a loro piacciono molto sceicchi e magnati, molto meno i Fondi di investimento. Bastonano spietati i piccoli club, chiudono un occhio e mezzo – girandosi anche dall’altra parte – quando tocca esaminare l’andazzo dei potenti.

L’altro aspetto che stride è l’avidità del supremo organismo europeo. Non ferma le partite né in presenza dell’11 settembre, né della pandemia, né della guerra, anzi le moltiplica, si inventa nuove manifestazioni, nuove formule, spalmando impegni sportivi insopportabili per 12 mesi all’anno buttandoci dentro preliminari, gironi e gironcini.

La reazione più celebre (feroce ma scomposta) di alcune società fu quel maldestro tentativo di scissione con l’improbabile creazione di una sgangherata SuperLega, che visse solo poche ore dall’alba senza vedere il tramonto.

E’ inevitabile, però, che a darsi una regolata debbano essere certamente i proprietari per abbattere la spaventosa catena montuosa di debiti che attraversa l’Europa, ma che non vi si possa sottrarre neppure l’Uefa, troppo occupata a raccattare soldi ovunque per accorgersi che la scelleratezza dei calendari rischia di soffocare il calcio in altra maniera. Tanto più se, oltre tutto, impedisci alle squadre di iscrivere alle competizioni la rosa completa dei giocatori, imponendo limiti e tagli anacronistici e penalizzanti che non hanno senso, né cittadinanza in nessun’altra disciplina.

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