di CRISTIANO GATTI – Eravamo un Paese con sessanta milioni di commissari tecnici, siamo avviati a diventare un Paese con sessanta milioni di commissari. Se l’editoria italiana, ma più in generale la lettura degli italiani, ha ancora un presente e magari pure un futuro, un grosso grazie andrebbe tributato a questo filone giallo, che da qualche anno tiene in piedi il fatturato, riservando benefici anche al ramo d’azienda tv con il robusto indotto fiction.
Filone giallo lo chiamo ancora io con linguaggio troglodita, da lettore che c’entra poco (faccio outing, a scanso di sospetti e insinuazioni: sono un lettore seriale, dunque patologico ri-lettore, di classici: per un romanzo storico, in particolare, potrei fare strage di congiunti). So dunque benissimo che parlando del fiorente filone giallo dovrei discernere per bene tra tutte le sue declinazioni, dal poliziesco classico al giudiziario cervellotico, dal noir cupo al comico provinciale, passando per le sofisticate introspezioni psicologiche del singolo poliziotto e per i picareschi quadri di costume delle varie città italiane. Fino alle deviazioni perverse dei preti e dei baristi che inciampano tutti i giorni in un cadavere e poi devono risolvere il caso in prima persona, facendo da badanti agli impediti che indagano nelle caserme e nelle questure.
In tutto questo, mi arriva un giorno per posta una novità freschissima. Squarcio la busta e ne viene fuori un volume edito da Solferino. Titolo: “L’assassino scrive 800A”. Sopra la copertina, una fascetta gialla con scritto: “Leggetelo, vi verrà voglia di essere arrestati”. Firmato: Fiorello. Certo, proprio Fiorello Fiorello. Fiorello quello. Un grande mattatore che presto potrebbe diventare materia di un altro filone giallo, come spietato serial-killer, se continua a non mangiare niente dopo le 17.
Quanto allo scrittore che mi ha inviato il regalo, il solo nome spiega tutto: di Fiorello è un autore storico, uno di quelli che da anni e anni ci fanno piegare in due sulla sedia, soprattutto all’epoca dei monologhi di indimenticabili one man show. Perchè mai Francesco Bozzi, noto al pubblico come Cicciobozzi, si sia deciso a inventarsi un nuovo mestiere, uno in più, o comunque ad allargare di molto il suo, è un altro giallo nel giallo. Resta il fatto che ci è riuscito benone. Anche se non si può dire che in Italia si senta la necessità di nuovi commissari, il suo commissario Mineo arriva comunque a piazzarsi con assoluta dignità nell’ampia cerchia degli investigatori di fantasia, con tutto che vive e lavora in Sicilia, cioè a dire nel mandamento letterariamente dominato da Montalbano, il signore dei commissari, benchè questo sia collocato nel sud dell’isola, mentre Mineo si muove tra Cinisi e Terrasini, zona Palermo.
Già questa premessa geografica rende Bozzi molto stimabile: per il coraggio di andarsi a ficcare territorialmente nel feudo di Camilleri, visto quello che la sfida comporta. Come minimo, deve avere da qualche parte un quartino di incoscienza. La strada scelta è però originale, capace di metterlo al riparo dai paragoni e dai confronti degli studiosi togati: tanto Montalbano è perfetto, qualche volta pure troppo, diventando come il brasato in estate, cioè torna su, tanto Mineo è imperfetto, sgraziato, eccentrico, piccolo borghese, piccolo e basta. Ma divertente, molto divertente. Di certo, mai pesante: magari per i suoi collaboratori La Placa e Milito, non per i lettori. Quanto al tipo umano, se Montalbano ha l’unica mania di mangiare in silenzio, senza che nessuno possa azzardarsi a rivolgergli la parola, Mineo ha tante manie quante palle può avere un albero di Natale, o quanti lifting può avere la Bernini. Ovviamente, non starò qui a elencarle. Così come nemmeno sotto tortura accennerò la trama. Non ne ho la minima intenzione. Per non parlare del giudizio critico: io non sono un D’Orrico, ormai convinto che un suo solo aggettivo possa fare la fortuna o la fine di uno scrittore (a lui e a quelli come lui, sempre consigliare la rilettura del Qoelet).
Oltre tutto, come specialista di gialli valgo una sverza. Però la mia grave dipendenza dalla roba libraria mi autorizza a esprimere almeno un’opinione: il libro in sè, me lo sono divorato.
Per il resto, se la veda il pubblico. Non sarò io a svelare qualcosa in più. Dev’essere chiaro una volta per tutte: i libri non bisogna farseli raccontare. Bisogna leggerli.