IL CASO RIVARA E IL PESO DELLA NOSTRA LEGGEREZZA

di LUCA SERAFINI – Il 23 settembre 1943 il carabiniere Salvo D’Acquisto si offrì volontario ai tedeschi per essere fucilato, in cambio della liberazione di 22 prigionieri innocenti destinati all’esecuzione. Estremo gesto d’amore: amore per la vita altrui, per la Patria (morì gridando: “Viva l’Italia!”), per l’orgoglio della propria famiglia. «Se muoio per altri cento, rinasco cento volte», disse. L’amore è il sacrificio proprio, non può mai essere confuso con il sacrificio altrui: quella è una deviazione, una malattia. E crudeltà, se vi è la consapevolezza di ciò che si sta facendo, se si è capaci di intendere tra bene e male. In ogni fatto di cronaca che riguarda fanatici religiosi – per lo più – che uccidono “per salvare”, o per “proteggere”, per “offrire a Dio”, non fatevi ingannare mai. L’amore e casomai l’altruismo riguardano la vita, non la morte.

La straziante vicenda di Rivara, dove Claudio Baima Poma ha prima ucciso il figlio Andrea di 11 anni poi si è tolto la vita, ha risvolti che non possono essere circoscritti alla sola materia della psicologia né riportati esclusivamente ai risvolti intimi di una vicenda familiare. In criminologia la statistica diventa spesso un elemento probatorio, perché i percorsi che generano gli eventi luttuosi appaiono ripetitivi, come riferimenti ineluttabili.

Secondo studi e statistiche approfondite svolte (in particolare) in Belgio, Stati Uniti e Svezia, una percentuale di pedofili vicina all’80% ha subito molestie nell’adolescenza. Più o meno la stessa percentuale dei criminali è cresciuto in un ambiente malsano, in famiglie problematiche dove alcol, droga, prostituzione e illegalità condizionano i figli. “Come una bestia feroce”, capolavoro del galeotto Edward Bunker, racconta dei suoi reiterati tentativi di redenzione resi impossibili dalla società circostante. La natura a volte respinge i condizionamenti esterni, ma senza aiuto è complicato che riesca a sopraffare l’indole. Questo è il punto focale: l’aiuto.

Nella storia di Claudio Baima Poma, divorziato e alle prese con profonde crisi depressive, c’è il silenzio proprio e probabilmente quello di chi non è riuscito a leggere nei tratti la sua spietata determinazione finale. L’assassino-suicida torinese ha annunciato l’imminenza del doppio gesto criminoso con un post su Facebook, ultimo sfogo disperato che però – scientemente – non ha lasciato spazio a ripensamenti, perché prima che uno qualsiasi dei lettori di quel suo delirio potesse intervenire, ha ucciso il figlio e si è ammazzato lui. Un picco di sordo egoismo in cui è francamente difficile dare spazio alla pietà, se non per il piccolo Andrea.

Ma noi, che non abbiamo nessuna comprensione per un gesto così orrendo, abbiamo comunque il dovere di interrogarci non sulla psiche e sui trascorsi di Claudio Baima Poma (perché non possiamo conoscere nulla di lui), ma sulle persone che lo hanno circondato nella sua esistenza, senza cogliere segnali. È complicato, certo. Già di per sé è molto difficile. Per di più, presi come siamo nel nostro quotidiano, distratti da mille altri post su Facebook e svariati social, vizi, attrazioni superflue, facciamo fatica a concentrarci, a distinguere. A capire.

È per questo che i miei sentimenti, di fronte a eventi di questo tipo, non sono solo sdegno, rabbia, sconcerto, tristezza: avverto invece profondi sensi di colpa, perché sono convinto che per quanto mi sforzi, per quanto cerchi in ogni modo di ascoltare un Claudio Baima Poma qualsiasi che certamente ho annoverato in quasi 60 anni di vita, farei fatica a intuire. Per la sua personalità contorta, certamente, ma forse anche per la mia leggerezza.

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