Eppure la crisi di Silicon Valley, in corso ormai da mesi, sorprende come qualcosa di bizzarro e impalpabile. Tutti siamo su Facebook, e Facebook licenzia (circa 11 mila persone, pari al 13% della forza lavoro totale). Tutti acquistiamo l’utile e l’inutile su Amazon, e Amazon “taglia” posti di lavoro (qualcosa come 10 mila persone lasciate a casa). Dietro le “big tech”, in scia, altri marchi si affrettano ad alleggerire gli organici: Elon Musk, nuovo proprietario di Twitter, ha ridotto l’organico della metà e migliaia di persone sono state congedate da aziende come Microsoft, Snapchat, Netflix e Intel. Apple e Google non hanno annunciato provvedimenti simili, ma comunque hanno dato segnali di stanchezza: in questo modo, infatti, è stata accolta l’annunciata decisione di “congelare le assunzioni”.
A colpire i media, almeno da noi, è la scoperta, davvero singolare, che anche queste aziende altamente tecnologiche procedono alle radicali operazioni di riorganizzazione con gli stessi metodi, ormai collaudati, delle imprese tradizionali: due righe per mail e arrivederci. Si racconta di ingegneri informatici emigrati negli Usa dalla Cina o dall’Australia che hanno ricevuto il benservito quando ancora non avevano avuto modo di disfare la valigia. “Brutale” è l’aggettivo più usato per descrivere l’operazione in corso a Silicon Valley: “brutale” e “sorprendente”. Come se da queste aziende di nuova generazione per il prodotto che esprimono ci si aspettasse anche una nuova generazione di relazioni manageriali, un approccio ai bilanci che, in nome di chissà quale evoluzione dell’illuminismo industriale, non rispondesse alle stesse logiche di quanti sono sul mercato per produrre e promuovere mercanzie più terra a terra.
Colpa loro, almeno in parte: per ragioni di puro marketing globale, oltre al software impiantato nei telefonini e nei computer, ci hanno costretto a scaricare nel cervello una ben costruita percezione di diversità, benevolenza e generosità circa gli scopi perseguiti da bilancio a bilancio. Una percezione alimentata a colpi di “campus”, di architetture d’avanguardia, di organizzazioni del lavoro che guardavano al rito del cartellino e della sirena a fine lavoro come a manifestazioni preistoriche. Loro no, loro – che con i loro software promettevano non solo di migliorarci la vita, ma di dischiuderci a un’“altra” vita, ovvero a un altro universo – erano evidentemente superiori a queste pratiche: le loro aziende, nel creare prodotti “superiori”, creavano anche modelli gestionali superiori e perfino dipendenti superiori. Il paradiso terrestre del lavoratore. E i dipendenti superiori non si licenziano come dipendenti normali, giusto? Sbagliato.
Si licenziano eccome invece. Sulla base tra l’altro di previsioni sbagliate, divinazioni manageriali che si sono rivelate imprecise quando non del tutto erronee. La crisi di Silicon Valley verrebbe innanzitutto dalle mancate promesse di molte startup, i cui nuovi strumenti informatici alla prova del mercato si sono rivelati meno graditi del previsto. A ruota, la valanga ha travolto anche i big: la crescita dei loro comparti – dal “metaverso” allo shopping online fino alla diffusione di contenuti in streaming – si è risolta in numeri più modesti rispetto a quelli annunciati da previsioni trionfalistiche, esagerate. La Borsa ha annusato aria di “bolla” e la “bolla” è scoppiata in faccia ai soliti noti: i dipendenti.
La crisi di Silicon Valley rappresenta dunque il doppio fallimento dell’idea di virtuale, ormai così spalmata a ogni livello della società: i software non creano la felicità né producono modelli d’impresa ideali, e le previsioni economiche più rosee, in questo comparto già intossicato dai sogni e dalle illusioni, si scontrano infine con la dura realtà. E le lacrime che ne conseguono sono tutto meno che virtuali.