I GIOVANI E IL COVID, ADESSO PERO’ BASTA TRATTARLI COME REDUCI DI GUERRA

Gli anni rubati, un titolo che pare un classico e invece è un tormentone.

Sia pure sommaria, una ricerca in rete permette di fare una scoperta che può rivelarsi interessante. Nelle prime tre pagine, compare quasi esclusivamente un riferimento: “Gli anni rubati” di Settimia Spizzichino, reduce dai lager di Auschwitz e Bergen-Belsen. Per restare in tema di furti, a rubare l’esclusiva è un libro di Paul Hill, dal medesimo titolo, che narra le memorie di una persona condannata all’ergastolo per un crimine che non ha commesso.

Ergastolo e lager dunque, esperienze estreme che non è difficile associare a vite trafugate, strappate, quando non cancellate definitivamente.

Questi i classici, in qualche modo. Il tormentone ha invece a che fare con la retorica del dopo Covid, che vorrebbe i nostri adolescenti, i nostri ragazzi privati di anni di vita e di futuro. L’ultimo richiamo nel quale mi sono imbattuto porta la firma di Walter Veltroni, sul “Corriere della Sera”, e letteralmente esprime un invito a tutta la società adulta: “restituiamo agli adolescenti il futuro (prima che sia troppo tardi)”.

Il riferimento a campi di concentramento e carcere a vita è a sua volta estremo, ma trovo estenuante questo continuo calcare la mano sulla deprivazione che i due anni e passa di Covid avrebbero inflitto a giovani e giovanissimi.

Chi ci restituisce questi due anni? È la domanda che regolarmente sento ripetere da ragazzi o da adulti sicuri di dar voce al pensiero delle giovani generazioni. In verità la risposta è molto semplice, nessuno ve li restituirà questi due anni, ma per il semplice motivo che li avete vissuti questi due anni. Con fatica, noia, frustrazione, anche depressione e rabbia, ma li avete vissuti. Può succedere.

Non sto minimizzando, ma nemmeno voglio assecondare una retorica che rischia di mettere l’accento sulla necessità del rimedio, ancor prima che spronare a ripartire con entusiasmo e slancio liberatorio. Rischia di compiacere una inclinazione al vittimismo di cui non abbiamo bisogno e di cui tantomeno hanno bisogno i giovani.

La storia è infida, ti può riservare le più eccentriche e inaspettate esperienze, una guerra, un lutto, una calamità, una carestia, una pandemia persino, ma ci si passa attraverso e si va oltre, certo non incolumi, quasi mai accade. Quello che vorrei provare a spiegare è che in questi due anni la vita non si è interrotta, è stata strana, tirannica a tratti, sorprendente, questo è sicuro, ma è stata comunque vita e se qualche apprendimento è stato penalizzato, se la vita sociale è stata condizionata in modo evidente, è pur vero che un’esperienza simile può segnare una vita in modo forte e indimenticabile, e non è necessariamente un insegnamento da poco.

Ne avremmo volentieri fatto a meno, tutti, ma è successo, non è un privilegio, ma è comunque un’esperienza unica di cui fare tesoro e che in fondo, se le rosee previsioni fossero state rispettate, avrebbe potuto renderci persino migliori.

Tutto questo con il supporto di internet e smartphone, vallo a spiegare all’ergastolano e al deportato. Relazioni virtuali, certo, ma esattamente come avviene da anni prima del Covid, ci dicono i sociologi, quasi verrebbe anzi da pensare che la pandemia, una volta alle spalle, possa contribuire a invertire la rotta. Quasi.

È vero, gli psicologi e gli psichiatri ci informano dell’aumento costante di disturbi innescati o aggravati dalla pandemia: solo, mi chiedo, quanto la nostra vittimistica retorica può aver contribuito?

La risposta non c’è, ma un contraddittorio mi pare doveroso.

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