I 40 ANNI DELLA SOLIDARIETA’ CESVI: COSI’ HA FATTO DEL BENE ANCHE A ME

Presente in 27 Paesi del mondo, 46 milioni di euro raccolti (32% da cittadini e imprese, il resto da donatori istituzionali), solo nel 2023 ha dato sostegno a 1.700.000 persone, con 127 progetti e 139 partner locali, costi di gestione intorno al 10%, 3 Oscar di bilancio.

Sono gli straordinari numeri del CESVI (Cooperazione, Emergenza, Sviluppo) di Bergamo, organizzazione noprofit che celebra con un libro del suo fondatore Maurizio Carrara, “40, i nostri anni di solidarietà” (ed. Guerini e Associati) il suo importante compleanno. Il volume è stato presentato alla Mondadori Duomo di Milano dall’autore, insieme alla presidentessa Gloria Zavatta, all’attrice-scrittrice Lella Costa, all’attore Alessio Boni.

“Fare bene il bene” è il motto dell’organizzazione nata nel 1985 grazie a un gruppo di amici, impegnati inizialmente in zone depresse africane e poi in grado di espandersi su tutto il pianeta. Il libro è un racconto appassionato e minuzioso dell’intensa attività che il CESVI ha svolto e della solidarietà che ha profuso in questi lunghi decenni, generalmente occupandosi di necessità primarie in nazioni dove povertà, catastrofi naturali o sommosse, non consentivano né istruzione né alimentazione, infine imbattendosi nella guerra nei Balcani dove già operava da tempo.

Fu in quel periodo, quando scoppiò il conflitto in Kosovo, che da semplice sostenitore e ambasciatore nei miei programmi radio e tv, divenni volontario. I telegiornali erano zeppi di quelle immagini di trattori e carretti con anziani, donne e bambini in fuga: non avendo mai sentito nominare il Kosovo in vita mia, scoprii sulle cartine che è a poche centinaia di chilometri, in linea d’aria, dall’Abruzzo. Dall’Italia.

Avevo conosciuto il CESVI grazie alla richiesta dell’amica Silvia Annichiarico, fedelissima di Renzo Arbore sin da tempi precedenti a “Quelli della notte”. Ero andato a trovarli negli uffici di Bergamo, eleganti come quelli della Fininvest, e a una cena in un ristorante di altissimo livello. Rimasi perplesso e non lo nascosi all’allora presidente Carrara. Mi rispose: “Cosa penseresti se lavorassimo in una stamberga? Chi pensi donerebbe se li portassimo a cena in un trani di periferia?”.

L’immagine dava luce alla sostanza. Leggevo i loro resoconti e il notiziario mensile, così nella primavera del 1999 tornai a Bergamo: “Voglio andare volontario nei campi profughi dei kosovari”. Erano sorpresi: “C’è bisogno di muratori, idraulici, falegnami, elettricisti… Specializzati, insomma. Non di giornalisti”. Ribattei: “Non ho nessuna intenzione di fare il giornalista: voglio far giocare i bambini, parlare con gli anziani, pulire i cessi e il campo”, esattamente quello che feci per un mese e mezzo quando partii per l’Albania.

CESVI aveva già in corso progetti in quella nazione, dove la feroce dittatura di Enver Hoxha aveva lasciato in eredità distruzione, miseria, anarchia. Raggiunsi a fine maggio altri due volontari (Renato Brazzorotto e Michele Novaga) nella sede albanese di Fier, una ventina di chilometri da Ballsh, dove erano radunati circa 850 profughi in una caserma abbandonata. Ho potuto vivere e condividere sul campo la realtà CESVI, accorgendomi di quanto egoista fosse stato il mio slancio, perché ho scoperto di aver ricevuto da quella gente molto, moltissimo in più di ciò che ho dato a loro. Lo dico senza nessuna modestia, memore delle parole di un caro amico sacerdote quando tornai dall’Albania: “Sostieni pure il CESVI con le tue piccole donazioni, è molto onorevole, ma vai di persona dal tuo vicino di casa a chiedere se ha bisogno di qualcosa…”.

In realtà nel settembre del 1999 andai in Kosovo con Renato e Michele per sincerarmi che i nostri profughi, nel frattempo rientrati a casa, stessero bene. Da allora ogni tanto suono il campanello dei miei anziani vicini di casa, per un saluto e per sapere se hanno bisogno di qualcosa. Continuando a sostenere il CESVI.Pubblicità

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