HONG KONG, SI VOTA LIBERAMENTE CHI PIACE A PECHINO

Domenica 19 dicembre 2021 è stata una giornata perfetta per la gente di Hong Kong. Perfetta per una gita. E infatti tanti, tantissimi sono andati a spasso: in spiaggia, sulle isolette che offrono ristoranti di pesce fresco e frutti di mare, sulle colline che circondano la città, intessute di sentieri che tanto piacciono agli scarpinatori. Ci sono andati approfittando della generosa offerta del governo locale che, per un giorno, ha reso gratuite le corse in metropolitana e in autobus, a qualunque ora e per qualunque direzione.

Per la verità, c’è chi sostiene che l’intenzione del governo non fosse quella di promuovere le gite quanto quella di facilitare e incoraggiare l’afflusso alle urne per le prime elezioni “patriottiche” del Consiglio legislativo, iniziativa peraltro mai intrapresa in precedenza.

Così fosse, il governo dovrebbe ammettere la sconfitta: la partecipazione degli elettori è arrivata solo al 30%, mai così bassa, cinque punti in meno del precedente record negativo, la consultazione del 1995, quando Hong Hong era ancora formalmente colonia britannica. Se invece l’idea era di incoraggiare i cittadini a trascorrere una giornata all’aria aperta, allora missione compiuta.

Dalle dichiarazioni ufficiali del giorno dopo non è facilissimo intuire le reali intenzioni del governo. Bisogna innanzitutto dire che l’elezione del Consiglio legislativo, avvenuta per consultazione generale, ancorché pressoché ignorata dalla popolazione, rappresenta solo una parte, non la più cospicua, della scelta delle rappresentanze istituzionali della città. Hong Kong non ha mai selezionato tutti i suoi governanti in piena democrazia, né con gli inglesi né ora in quanto Regione autonoma della Repubblica popolare cinese. Fino a oggi – anzi, fino a domenica – l’elezione del Consiglio legislativo (in breve: Legco) era però l’unica che avvenisse con criteri pienamente democratici: liberi candidati, partiti, campagne elettorali più o meno chiassose. Quest’anno, però, il governo, incalzato dalle direttive di Pechino, ha deciso di piantarla con queste buffonate demagogiche: elezioni generali sì, ma solo con candidati “patriottici”, il che è una formula per dire “preventivamente approvati”, ovvero a prova di fedeltà al potere centrale.

Risultato: un misero 30 per cento di affluenza ma, da oggi, un Consiglio legislativo compatto, senza sorprese e alzate di testa. L’autorità locale, rappresentata in primis dal Chief executive Carrie Lam, ha fatto leva sulla necessità di isolare le frange più intransigenti della protesta anti-Cina in città – il piccolo movimento dei secessionisti – per mettere al bando tutto il fronte democratico che infatti, di fronte all’impossibilità di scegliere liberamente i suoi candidati (molti dei quali attualmente in prigione), ha deciso di non presentarli affatto.

Ufficialmente il nuovo Legco dispiega una varietà di partiti e di “liste civiche”: nei fatti tutte queste sigle portano con orgoglio il marchio d’approvazione di Pechino.

Questo non ha impedito a Carrie Lam di salutare l’elezione con sentimenti entusiastici: si è detta impaziente di lavorare con i nuovi eletti perché “presentano idee diverse sui problemi essenziali da affrontare”. Una considerazione che suonerebbe lapalissiana in ogni elezione propriamente democratica, ma che in questo caso, evidentemente, deve essere dichiarata a piena voce perché mai potrebbe emergere altrimenti.

Da parte sua, il governo di Pechino ha salutato l’elezione come “un passo avanti sulla strada di Hong Kong verso la democrazia”, il che è certamente vero se per democrazia si intende la rassegnata ratifica da parte di pochi di ciò che è presentato come inevitabile.

Così, oggi, Hong Kong si trova nella poco invidiabile posizione di sapere impercorribile la strada del passato (una soggezione coloniale antistorica e ingiusta, anche se oggi da molti rimpianta) e di doversi rassegnare all’assorbimento nel sistema cinese, controllato al vertice con polso fermo e con tolleranza zero per il dissenso, mentre trova sbarrata la via alla quale aspirerebbe, quella verso i sistemi democratici occidentali che, imperfetti e ipocriti quanto vogliamo, almeno non arrivano a definire “un passo avanti” consultazioni dall’esito determinato a priori.

Sistemi peraltro applicati in nazioni impegnate a loro volta in un gioco di relazioni internazionali per il quale il destino di Hong Kong è stato deciso da tempo: nessuno in Occidente vuole litigare sul serio con la Cina per salvaguardare i diritti civili e umani di una sola città, sia pur popolosa ed estremamente produttiva.

Capirete bene che, in queste condizioni, ai cittadini di Hong Kong non resta altro che andare in gita. Cosa che hanno fatto, visto che al mare e sulle colline è ancora possibile respirare aria pulita.

 

 

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