GUIDA PRATICA PER CAPIRE I COATTI BRITISH

di MARCO CIMMINO – Su questi campionati europei di calcio se ne sono sentite di tutti i colori: dai superesperti ai mondialisti, dai biografi agli identitari. Prima, durante e dopo. Immaginatevi come me la sia spassata, visto che, a parte seguire un po’a casaccio i destini dell’Atalanta, il nobile sport del pallone mi interessa quanto il curling. E, forse, anche meno.

Tuttavia, avendo passato da tempo l’età del baliatico, ci sono abituato e non ci faccio caso: lo considero una specie di invasamento periodico collettivo e aspetto pazientemente che passi.

Però, mi sento di dire almeno una cosa, circa i commenti che ho letto e sentito e, precisamente, sulle giustificatissime proteste riguardo l’antisportività del pubblico di Wembley. Proteste, come dicevo, giustificate, ma indirizzate all’interlocutore sbagliato. Perché nessuno, neppure i sedicenti britannologi di casa nostra, come l’immarcescibile Severgnini o l’esilarante Caprarica, triste epigono del geniale Paternostro, ha rimarcato l’aspetto fondamentale della faccenda. Il che dimostra che, per spacciarsi per esperti di Regno Unito non basti vestirsi come Sbirulino o sibilare qualche suono d’Oltremanica ogni tanto.

Invece, senza estrarre dall’hangar la severgninica mascella, chiunque conosca un pochino la realtà britannica avrebbe potuto dirvi che l’Inghilterra, in molte cose e specialmente nello sport, è un Paese del tutto bipolare. E’ fatta, insomma, di due anime diverse, che nemmeno si parlano: l’upper class e la working class. Non è come da noi, dove tra un tamarro ricco e uno povero non corre grossa differenza: uno suona il clacson fino alle tre di notte su di una BMW e l’altro su di una Panda, ma, antropologicamente, sono cugini stretti. Invece, tra un inglese delle classi elevate e uno scaricatore dell’East End, tra un gallerista di Belgravia e un brumista di Brixton, c’è un abisso: in un certo senso, non parlano neppure la stessa lingua. Questi si sforzano di pronunciare l’horsey brit, scimmiottando i Reali, quelli dicono “fagallah” per chiederti da accendere.

Ecco, se non si tiene presente questo muro che divide in due l’Inghilterra, non si possono comprendere certi comportamenti. Da una parte il soccer viene considerato uno sport da trogloditi, praticato da immigrati e sostenuto dal tifo di esseri semibestiali. Dall’altra, il cricket è descritto come un passatempo da fighetti e osservato in televisione dagli wannabe che aspirino al salto di qualità sociale. In mezzo, sta il rugby, che appartiene agli happy few delle public school fino ai vent’anni, per poi passare di mano: è considerato una sorta di apprendistato civile, a Eton o all’All Souls, ma poi precipita nel generico disprezzo che avvolge ogni cosa che non sia gentry.

Quindi, sappiate che quelli che ci accusano di vincere partite di calcio o perdere guerre con lo stesso sentimento, quelli che hanno inventato il fair play e che si proclamano sportsmen, piuttosto che sportivi, appartengono alla prima delle due categorie: quella che, da Charing Cross, per tornare a casa, svolta a destra, sul Mall.

Quelli che sputano, gridano, pisciano e calpestano le altrui bandiere, invece, prendono lo Strand, voltando a sinistra, per avviarsi alle proprie periferiche dimore, con la moquette viola e il marciapiede sbreccato.

Due mondi, divisi dall’invisibile steccato di Regent street. Ogni metropoli ha i suoi quartieri malfamati e le sue zone residenziali: l’Inghilterra ha due mondi contrapposti, Londra è più divisa in due di Berlino durante la Guerra Fredda.

Volevo lo sapeste. Così, potrete giudicare con occhio ancora più spietatamente critico il premier Johnson e la famigliola del principe William, che se ne sono andati, appunto, all’inglese, come un cockney qualsiasi. A dimostrazione che, perfino nella bipolare Inghilterra, la decadenza dei costumi arriva fino alla cima della piramide: mica solo qui da noi. E, per soprammercato, da loro deve scavalcare una muraglia.

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