GUARESCHI E IL PERICOLO DI RICORDARLO

di MARCO CIMMINO – Uno dei fenomeni più straordinari della letteratura italiana, ma anche della cronaca e, perché no, della storia del nostro Paese, riguarda Giovanni Guareschi: il suo è un caso di rimozione talmente totale da non poter evitare d’insospettire un osservatore neutrale. E massime se quell’osservatore ha potuto assistere alla beatificazione di autentici brocchi, alla monumentalizzazione di nullità al cubo. Su Guareschi si è esercitata, da parte della macchina culturale italica, una ‘conventio ad tacendum’ che non ha eguali in letteratura e che, in un’applicazione tanto pedissequa e zelante della cara vecchia dezinformacija, trova riscontro soltanto in ambiti più drammatici, come i genocidi o simili. Insomma, a cinquanta e passa anni dalla scomparsa dello scrittore, non se ne deve parlare: bisogna fischiettare con aria spensierata, ogni volta che qualcuno lo nomini, fosse solo per screditarlo o criticarlo. Perfino D’Annunzio, certamente più inviso, per mille ragioni, agli omiciattoli della cultura organica, ha subito una sorte meno dura: certo, se ne tramanda un’immagine più simile alla caricatura che al ritratto, ma, perlomeno, se ne ammette l’esistenza.

Invece, Giovannino Guareschi, fin dal suo funerale, nel luglio del 1968, è entrato in una sorta di dimenticatoio obbligatorio: chi lo conosceva ha fatto finta di non conoscerlo e chi non lo conosceva ha trovato mille difficoltà nel cercarne le tracce, semicancellate dal tempo e dagli iconoclasti un tanto al chilo. Tantum religio potuit suadere malorum, scriveva un tal Lucrezio, pure lui mica tanto ricordato: certo, Peppone e Don Camillo non sono Ifigenia, però, verrebbe da dire che il vecchio Luc ci avesse azzeccato in pieno. La superstizione produce disastri: e quella contro Guareschi è davvero una superstizione, la degenerazione di una fede religiosa. Quella degli omini nati con tre narici: dei comunisti, che più sono ridicoli e più si prendono permalosamente sul serio.

Ecco, Guareschi, prima di tutto, ha osato ridere della loro ammuffita serietà: si è preso il lusso di scherzare sulla loro feroce interpretazione del dovere politico, sulla loro protervia ottusa, sul loro formalismo, sulle loro convenzioni. E, va detto, sui loro delitti. Ma lui scherzava un po’ su tutto: prendeva la vita alla leggera, sapendo benissimo che ad ogni giorno basta il proprio male, senza bisogno di aggiungerne dell’altro. Colpa intollerabile per chi, della propria supposta serietà, ha fatto una bandiera politica: ricordo uno slogan di Romano Prodi, in cui uno così rivendicava il suo essere serio. Prodi non è serio: è grottescamente serioso. E Guareschi lo avrebbe ridotto a brandelli, con la sua ironia formidabile. Per questo, anche dopo cinquant’anni, è considerato un pericolo.

Senza contare che uno scrittore che vende milioni di libri e che è tradotto in tutte le lingue del pianeta, dopo che lo si è accusato di qualunquismo, inconsistenza, irrilevanza culturale, fa fare una figura da cioccolatino a tutti i pomposi critici di regime, ma, soprattutto, a quegli scalzacani di scrittori da premio letterario, amici degli amici, che, alla riprova dei fatti, non piazzano venti copie delle loro striminzite plaquettes. Quindi, Giovannino va in soffitta. E l’anniversario della sua morte, ovvero oggi (53 anni fa, essendo scomparso nel 1968, ndr), passa sotto silenzio. Così, lo ricordiamo in pochi, questo anniversario: i suoi 23 lettori, in primis, e poi noi, ultimi e mignoli. Ma lui continua a vender libri e i film sui suoi eroi continuano a passare in tv, anche dopo cinquant’anni. E Giovannino, sulla sua nuvoletta, continua a ridacchiare, beato.

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