GIRMAY, IL PICCOLO MERCKX CHE FA IMPAZZIRE L’AFRICA NERA

Anche l’Africa ha il suo Eddy Merckx. Il suo prodigio in bicicletta. Il suo fuoriclasse del pedale. Si chiama Binian Girmay, ed è eritreo (viene da Asmara). Ha soli 22 anni e questa primavera era balzato agli onori delle cronache per aver vinto una classica del nord, la Gand-Wevelgem, primo africano ad ottenere questo risultato.

Sul traguardo di Jesi, sotto gli occhi del ct azzurro Roberto Mancini, ha conquistato la prima tappa in un Grande Giro, prima per tutta l’Africa, prima di finire al pronto soccorso con un occhio malconcio per via del tappo dello spumante, segno quanto meno che non è ancora abituato a vincere, men che meno a bere.

Il Continente Nero sta letteralmente impazzendo per le imprese di questo ragazzo, che ormai dalle sue parti, come ha recentemente raccontato, <sono costretto a camuffarmi per poter camminare in città>.

Biniam nasce ad Asmara. Inizialmente gioca a calcio, ma poi a 12 anni sco­pre la bicicletta. La prima è una Ste­vens da mountain bike, che suo padre Girmay Hailu (la mamma si chiama Firweyeni Mahari, Biniam è il terzo di sei fratelli, ndr) acquista con grandi sacrifici. Due anni più tardi, il ragazzo sceglierà le corse su strada. E con esse, la strada giusta.

Per inquadrare al meglio gli eventi, è necessario fare un passo in­dietro nella Storia, quella con la S maiu­scola. È infatti nel 1881 che le potenze europee si spartiscono l’Africa: al Regno d’Italia toccano l’Eritrea e la Somalia. Ma sarà poi nel 1935 e nel 1936, con la guerra di conquista voluta dal regime fascista, che la presenza degli italiani in quell’angolo di Africa si farà più concreta. I soldati prima, i lavoratori e gli imprenditori italiani poi portano con sé le loro passioni, anche quelle sportive: in testa a tutte in quegli anni c’è il ciclismo. Si spiega così il fatto che l’Eritrea sia il Paese africano che per primo ha fatto parlare di sé nel ciclismo che conta – il Sudafrica, per mille ragioni, ha una storia a parte – e non è un caso che proprio un ciclista eritreo, Daniel Te­klehai­ma­not, sia stato il primo corridore africano a vestire la maglia a pois del Tour de France, entusiasmando un intero continente.

Ma torniamo a Bini, così viene chiamato in squadra. Ancor prima di compiere 18 anni, il ragazzo ha una grande opportunità: viene chiamato ad Aigle, in Svizzera, al Centro Mondiale del Ciclismo dell’Uci, una specie di accademia della bicicletta agonistica. «È stata la mia fortuna, perché lì mi hanno insegnato come allenarmi al meglio, come alimentarmi, come muovermi in corsa. Certo, non è stato facile lasciare la mia casa, ma non l’ho mai vissuto come un dramma, perché sapevo di poter affrontare le gare più importanti al mondo, prima tra gli juniores e poi tra gli Under 23».

Ed è proprio da juniores che Bini incrocia le ruote con Remco Evenepoel, l’altro prodigio del momento: quell’anno il corridore belga vince tutte le gare cui partecipa, compresi mondiale ed europeo, tranne due, ed entrambe le volte a batterlo è Biniam Girmay.

«Mio padre e la mamma – racconta il talentuoso ragazzo -, lavorano nella falegnameria di famiglia e sono grandi appassionati di sport. Io abito ad Asmara con mia moglie Salime e la piccola Liela, un anno. Lei si è presa un anno di stop, lavora in un ufficio governativo e studia per diventare scienziata. Io ho fatto la scuola superiore in inglese, poi sono andato in Svizzera. Le materie preferite? Biologia e inglese. Sono cristiano-ortodosso e mi sono sposato giovane, a 20 anni, come avveniva in passato anche da voi in Europa».

E ancora: «A 10 anni giocavo a pallone (tifa Mancester United, ndr), poi ho scoperto il ciclismo (i suoi idoli: Sagan e Cavendish, ndr). Lo sport è stato sempre il centro della mia vita. Se ho avuto un’ispirazione? Sicuramente Teklehaimanot, avevo 15 anni, lui è stato un pioniere e un’ispirazione per tanti ragazzini come me. Se amo l’Italia? Certo che si. Ho vissuto prima a Lucca con altri eritrei, dove c’era la base del team sudafricano Qhubeka. E adesso sono a San Marino, con Ciccone e Albanese: non esattamente Italia, ma praticamente sì».

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