GINO STRADA: NON SERVE BEATIFICARLO, BASTA COM’ERA

di LUCA SERAFINI – Quelle rare volte in cui, dopo esserci conosciuti durante una remota cena di beneficenza, è capitato di rincontrarci (l’ultima volta ormai troppi anni fa) il calcio prendeva presto il sopravvento nella conversazione. Si era appena finito di parlare di guerre e di ferite, di orrori e di ingiustizie, di politica e organizzazioni umanitarie: si sentiva il bisogno di alleggerire un po’ l’atmosfera.
La sua arroganza era difficile da ammorbidire se il tema era il pallone, così quando mi capitò di vederlo attaccato sui giornali e in tv per le ombre che – a un certo punto – presero a mischiarsi alle luci accese su “Emergency”, mi arrabbiai: “Perché”, pensavo, “invece di raccontare quanto è dura la trincea, ribatte isterico, da burbero stizzito?”

Un esempio. Accusavano “Emergency”, creata da lui e sua moglie Teresa nel 1994, di avere qualche serpe in seno, qualche mela marcia. Lui negava e basta, rilanciando con forza al mittente ben sapendo invece che era, che è, possibile. Eccome. E’ possibile che ci siano mele marce tra le ONG impegnate in progetti di pace, figurarsi in un’organizzazione umanitaria come la sua, in prima fila sui territori di guerra nel curare indifferentemente boia e perseguitati, militari e civili, ribelli e paramilitari. Lui stesso ha sostenuto più volte: “Il dilettantismo è una brutta piaga del volontariato”. Si occupava dei feriti e dei dilaniati, non delle divise o dei vestiti che indossavano: esercizio assai pericoloso in questo mondo di sospetti e di interessi accavallati tra mitra, carri armati e ospedali da campo. Dove ogni barella prelude a una vendetta.
La mia esperienza più che ventennale, una volta anche sul campo, con le ONG, mi ha insegnato come sia una costrizione necessaria scendere a patti, piegarsi ad alcuni baratti, girarsi dall’altra parte per diminuire il danno, per difendere qualcosa o qualcuno. In Albania, dove si erano rifugiati i profughi kosovari durante la guerra nel loro Paese alla fine degli anni ’90, la notte noi volontari facevamo entrare nei magazzini i banditi del posto per saccheggiare le scorte: era un modo per ingraziarci il quieto vivere, ma anche per non buttare via quintali di alimenti. In quelle settimane la solidarietà mondiale faceva sì che arrivassero quotidianamente nel nostro piccolo, sperduto centro di Ballsh, vicino a Valona, TIR stipati di qualsiasi cosa e la gestione nei nostri ridotti capannoni era complicatissima: tonnellate di carne in scatola (che i musulmani non mangiavano, ma gli albanesi sì), vasetti di tonno (sconosciute e dunque rifiutate dai rifugiati, ma dagli albanesi no), verdure, migliaia di arance e altra frutta destinata a marcire in poche ore, forme di grana in pieno luglio quando faceva caldo e mettevano sete…
Arrivò un giorno, giuro su Dio, un autoarticolato stracarico di lattine di Slim Fast, la bevanda dimagrante molto popolare nell’Occidente lontano dai Balcani. Mentre il responsabile del campo Renato bestemmiava, io mi misi a leggere le componenti di quell’integratore, poi dissi a Renato: “Sono elementi naturali, senza conservanti, ricchi di vitamine. Hanno gusti di frutta, vaniglia, cioccolato: possiamo darle ai bambini a colazione o a merenda”. Funzionò.
Ci fermavano di tanto in tanto, nei brevi e frequenti trasferimenti tra il campo e il centro abitato, bande di incappucciati e armati che si spacciavano per “Polizia locale”, senza alcun segno di riconoscimento. Gli davamo coperte e giocattoli rotti, oppure (di nuovo) li invitavamo alle razzie notturne perché si accaparrassero il superfluo: da mangiare e da bere ai profughi non mancava.
Quell’esperienza, oltre a libri, film, documentari e un libro dello stesso Gino Strada, mi insegnarono come la guerra è guerra anche per chi fa del bene, e che chi sta in pace non capisce, non può capire. Può solo criticare e giudicare. Noi avevamo la coscienza pulita, non ci siamo mai vergognati dei nostri miserabili baratti.
“Emergency” diventò scomoda per le “ricchezze” che accumulava (ospedali, ambulatori, attrezzature, mezzi) e il “potere” che acquisiva nelle sue trincee, finendo inevitabilmente con l’infastidire i potenti del mondo e – immagino – mescolarsi con le autorità locali. Non era solo questo, naturalmente: erano anche posizioni estreme che Gino Strada non mancava di prendere sui conflitti bellici (“Non sono un pacifista: sono contro la guerra”), nei confronti della Croce Rossa Italiana prima e della Nato poi.
La questione, per come la vedevo io, non era tanto un fatto ideologico (perché Strada fu feroce anche con uomini di sinistra come D’Alema, Prodi, Renzi e di recente Letta), ma certamente era influenzata dalla sua cultura che, nonostante un’infanzia immersa nel mondo cattolico e l’amicizia con molti prelati, lo aveva portato lontano da Dio (“Non ne ho bisogno”), ribellandosi anche all’etichetta di comunista: “Non sono di sinistra: sono per la vita, la giustizia, l’uguaglianza. Destra e sinistra, poi, nel nostro Paese non esistono: in Italia la politica è comica”, il che non gli impedì di accettare l’eventuale candidatura M5S, qualche anno fa, “perché dall’interno forse qualcosa si può fare”, avendo sposato il dogma di madre Teresa secondo cui “ogni goccia fa il mare”.
Era stato sotto alle bombe di tutto il mondo spesso senza riparo, denunciava che le guerre di cui non si parla più si combattono ancora, come nel suo amato Afghanistan, tornato drammaticamente d’attualità proprio nei giorni in cui Gino Strada è arrivato in fondo al suo cammino, su un terreno minato come quelli reali di cui raccontava dagli angoli più sperduti ad ogni latitudine.
Ecco perché l’accusa più grottesca era probabilmente quella per cui fosse una persona che faceva sì del bene, ma certo non era neutrale. Grottesca perché quelli che la pensavano come lui sulla ferocia della NATO in Afghanistan, sono gli stessi che oggi accusano la NATO di aver lasciato quella terra in mano ai talebani.
Non abbiamo perso un santo, certo no, ma un uomo eccellente, questo sì. Con molte virtù e molti difetti, con il suo modo burbero, polemico, trasversale rispetto alle convenzioni conosciute su questioni come la guerra. Guerra che fingiamo di ignorare, seduti nei nostri tribunali, nei nostri salotti, nei nostri bar a parlare di Gino Strada. Un ateo che voleva incontrare Bergoglio per parlare dell’abolizione della guerra, “un’utopia di cui non si parla più”, e che invece sopravvive nei pochi Gino Strada sui quali ancora possiamo contare.

Un pensiero su “GINO STRADA: NON SERVE BEATIFICARLO, BASTA COM’ERA

  1. Fausto dice:

    Prego per la Sua anima e perché prima di salire ai padri abbia avuto il tempo di convertirsi, magari anche attraverso l’ intercessione di Madre Teresa, perché chi è per la vita la giustizia e l’ uguaglianza non può non avere bisogno di Dio

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