di TONY DAMASCELLI – Gennaro Gattuso è tagliato con il falcetto. Ha spigoli dovunque, nato quadrato non ha cercato di diventare tondo. ma questo non è affatto un problema.
Ricordo: stava seduto, a gambe sguaiatamente aperte, come tutti i calciatori, sudato ai massimi, naturale per uno che aveva appena concluso di giocare la finale del mondiale, pure vinta insieme con gli altri compagni suoi in quella notte di Berlino, quando, sbirciandosi sul monitor davanti a lui, aggrottò la fronte e disse: ”Maronna, quanto so’ brutto”.
Gennaro Rino è fatto così, non va mai di repertorio, pensa in calabrese e traduce in italiano e quando ha voglia di parlare, come gli accadeva di urlare e aggredire qualunque avversario, procede, senza nemmeno la traduzione dal dialetto originario. Ha messo su i chili del benessere e della seconda vita a bordo campo, si addobba come un personaggio oscuro dei film francesi noir, lungo le strade di Marsiglia, ma non recita, non finge. Mai.
Mercoledì ventitré di dicembre, dopo aver pareggiato contro il Torino, e già questa sarebbe stata l’occasione per lamentarsi, frignare, fare lo smorfie come molti sodali suoi, si è presentato con quell’occhio, il destro, malato da anni, dicesi miastenia ed è roba seria, e ha ricordato che la vita è bella, che ci sono altre cose drammatiche, che lui soffre perché stavolta il male l’ha preso sul serio, ma lui sa che va affrontato senza paura, senza nascondersi, magari evitando lo specchio perché la vita è altro.
Rino non l’ha buttata sul patetico, non è roba sua, anche quando ha accennato a medici o ignoranti che gli hanno dato un mese di vita, ha pure aggiunto che, se dovesse mai capitare di salutare in anticipo questo bel mondo, vorrebbe farlo sul campo di pallone che è stato il suo presepe di sempre.
Dicono i maligni o cialtroni: così ha mascherato i mali del Napoli, così ha distratto i critici perché a Natale dobbiamo essere tutti bbbuoni.
Negativo, Gattuso non ha bisogno di mettere la palla in calcio d’angolo, preferisce marcare a uomo, va diritto al bersaglio, dice parole sincere, il Napoli e tutta la compagnia del circo per lui sono dettagli, un luna park che si spegne al novantesimo minuto, lui non ama il calcio ma è pazzo di pallone, che è cosa altra, vede doppio per la malattia ma sente benissimo quello che sta accadendo, capisce di non essere più lo stesso, sa di essere brutto, come nella notte di Berlino, ma incomincia a pensare di potersi chiamare fuori, per evitare elemosine e compatimenti.
Napoli è ancora affranta di Diego e del sangue non sciolto del santo, vive di nostalgie e di presepi, dunque mischia sacro e profano e non ha più tempo da dedicare a questo uomo roccioso come la terra sua di Calabria. Rino non lascia il campo. Qui ha scelto di vivere. Ma non di sopravvivere.