FRATELLO ALBANESE

di MARIO SCHIANI – Quando si parla di amicizia, non si può che andare sul personale. E allora, se non vi dispiace, facciamo un salto indietro nel tempo, verso la fine degli anni ’90. Siamo a Como e il giornale per cui lavoro, La Provincia, si occupa di uno strano caso: famiglie di profughi dal Kosovo e dall’Albania in arrivo in un territorio che, non dimentichiamolo, fino a quel momento la cosa più simile a un profugo che avesse mai visto era stato uno svizzero smarritosi dopo aver fatto la spesa a Ponte Chiasso.

Questi invece sono profughi veri: vengono dalla guerra che devasta il Kosovo, fuggono dalla repressione dei serbi e, per quanto riguarda gli albanesi, si uniscono al grande flusso migratorio verso l’Italia iniziato anni prima con la caduta del regime comunista di Tirana.

Parte di queste famiglie viene dirottata su Sagnino, che è un quartiere di Como al confine con la Svizzera. Se fosse atterrata un’astronave l’impressione sarebbe stata minore: questa gente, che pure è raccolta in nuclei familiari con tanto di bambini, desta sospetto.

“Vengono qui e pensano di fare quello che vogliono”, dice una commerciante allo scrupoloso cronista. Come per incanto, o sortilegio, fioriscono sulla bocca di tanti quelle espressioni che oggi conosciamo bene: “Non riescono a integrarsi”, “Aiutiamoli a casa loro”, “Prima i comaschi” e “Io non sono razzista ma…”. Manca solo la litania sugli smartphone di ultima generazione: giusto perché non erano ancora stati inventati.

Eppure, da tanta tensione, qualcosa di buono piano piano esce. C’è chi, tra i comaschi, si avvicina e scopre che gli ex comunisti albanesi non mangiano i bambini, non tutti i giorni almeno, e che tra loro c’è perfino chi manifesta sintomi evidenti di una sindrome tutta lombarda, la “vöja de laurà”, la voglia di lavorare.

Inizia così una storia di perfetta integrazione da esibire ogni volta che qualcuno sostiene come operazioni del genere siano impossibili. Con gli albanesi – e i kosovari – di Sagnino è stato possibile eccome.

Piace ricordare questa vicenda proprio oggi, quando l’Italia, tappata in casa, scopre la vicinanza che gli albanesi hanno saputo dimostrarle nel momento del bisogno. Le parole del premier Edi Rama ci hanno colpito: per l’italiano impeccabile e per lo spessore umano. “Non dimentichiamo che ci avete aiutato”, ha detto. Semplicemente, sinceramente.

Dietro il team di trenta medici e infermieri albanesi arrivati in Italia per darci una mano a uscire dal pasticciaccio del virus c’è una storia lunga, a tratti sconnessa, alla quale la Storia ha voluto aggiungere capitoli anche molto infelici, ma che ha saputo farsi strada verso un lieto fine. Quello in cui due popoli si guardano in faccia e si riconoscono. Gente, gli albanesi, che è giusto, oggi, chiamare fratelli.

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