FESTA DEL PAPA’? MA SE IL PADRE L’ABBIAMO TRUCIDATO

di FABIO GATTI – Ad essere sinceri, dovremmo ammettere che quella del papà, più che una festa, è una commemorazione. L’ipocrisia regnante imporrà di omaggiare il padre e celebrarne il ruolo, ma la ricorrenza del 19 marzo assomiglierà sempre più pericolosamente a un carnevale: per un giorno s’immagina un mondo capovolto che nella realtà non esiste.

Il padre è la figura sociale attaccata da più tempo e con più virulenza, contestata prima del prete, del poliziotto e dell’insegnante: a partire dal ’68, il padre è diventato simbolo di un’autorità a cui ribellarsi, il tiranno che soffoca la liberà e i desideri dei figli, l’emblema vivente di un passato con cui tagliare i ponti.

Le teorie e il vissuto personale di alcuni grandi del pensiero – da Freud a Kafka – hanno finito per condizionare un’intera mentalità, che ha così appiattito la figura del padre su quella del padrone. E forse era inevitabile, perché una rottura esige quasi sempre un’esasperazione: con l’acqua sporca va buttato via anche il bambino – in questo caso, si è preferito il papà del bambino –, altrimenti il cambiamento è incompiuto. Relegato in soffitta il pater familias, che dispoticamente decideva le sorti dell’intero nucleo parentale, si è passati al padre che non può influenzare, imporre, condizionare, finendo così al padre che non può educare.

In anni più recenti si è andati oltre. Si dice che padre e madre siano categorie desuete e superate, frutto dei condizionamenti e dei pregiudizi culturali, che esistono solo genitore 1 e genitore 2 (peraltro con variazioni sul tema): l’idea che i ruoli di una madre e di un padre siano complementari, non necessariamente stereotipici ma comunque differenti, è un’idea rifiutata a tal punto che il buon padre, oggi, è quello che sa essere “mammo”. È una spia del nostro modo di pensare il fatto che il criterio con cui si misura un padre modello sia unicamente materiale: al padre non si chiede più di insegnare, correggere, ispirare, ma si pretende che sia autista, baby sitter, compagno di giochi e merende, infermiere, finanziatore. Dal padre educatore al padre animatore.

La considerazione che la società ha del padre è chiaramente testimoniata dalle leggi in materia di affido in caso di separazione o divorzio: il figlio va quasi sempre alla mamma, al papà l’onore di incontrarlo saltuariamente e l’onere di provvedere al suo mantenimento. La madre è una figura riconosciuta e tutelata, il padre una variabile secondaria, un’appendice, una comparsa: assolve, se va bene, a una funzione materiale, non morale; è fonte di sostentamento e foraggiamento, non di sapere e saggezza. Persino in ambito teologico, ormai, si insiste più sulla maternità di Dio, che non sull’immagine del padre buono, come se il padre potesse essere solo il giudice implacabile e punitivo dell’Antico Testamento, come se la paternità fosse incompatibile con la sensibilità, l’affetto, la delicatezza che caratterizzano il padre del Nuovo Testamento.

Che cosa resta oggi del padre? Un personaggio in cerca d’autore, una figura sbiadita e indefinibile alla ricerca di un’identità. Le botte che Fidippide dà al padre Strepsiade, nelle “Nuvole” di Aristofane, per dimostrargli che l’abilità retorica conta più del principio d’autorità, corrispondono ai colpi morali inferti al padre nei tempi nostri; ma lì era commedia, qui è realtà.

La festa di un giorno servirà a restituire al padre la dignità che merita? È più facile che sia il modo di sciacquarsi la coscienza per il resto dell’anno.

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